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Articoli educativi

Animali domestici e bambini

Eccoci a parlare di uno degli articoli che era in progetto da un po’ di tempo.
Ma anche uno di quelli più complessi e forse anche non reperibili così facilmente.

O meglio: dal punto di vista pratico di gestione delle varie bestiole (cane, gatto, rettili, criceti, chiocciole e insetti stecco) in internet sono reperibili materiali informativi adeguati alla loro cura e gestione.
Un po’ meno, per quella che è la mia esperienza, la gestione di base insieme alle modalità di relazione e co-abitazione dei vari animali con i bambini.
E ancora meno in ottica educativa e relazionale.

Quindi sì.
Partiamo con il dire che avere un animale domestico è potenzialmente un’ottima cosa per i bambini.

E di solito i PRO più gettonati sono lo sviluppare empatia e capacità di relazionarsi in maniera più fisica (e allo stesso tempo controllata), la possibilità di avere relazioni più “dirette” (e non filtrate dal verbale e dalle norme sociali), la responsabilizzazione dei bambini e, in alcuni casi, il poter assistere e vedere dal vivo il ciclo di vita di un animale specifico.
Chiaramente questi vantaggi sono più o meno pertinenti a seconda dell’animale in questione.
Per cui il cane è l’emblema per eccellenza delle “relazioni più dirette”; mentre bruchi e insetti stecco (ma anche galline e girini) se lo contendono per il primato del ciclo di vita.

 

Quando ho iniziato a pensare a questo argomento avevo come focus principale le tartarughe d’acqua. Perché, insieme ai conigli e ai pesci rossi, sono gli animali che hanno un’enorme differenza tra ciò di cui hanno bisogno e la percezione di quanto sia semplice gestirli.
E quindi spesso sono la scelta più gettonata per accontentare le richieste di bambini più o meno grandi di avere un animale domestico. Salvo poi rivelarsi una disastro in gestione pratica, economica ed emotiva.

 

E quindi partiamo con il dire che sì, potenzialmente tutti i punti di cui sopra sono veri e positivissimi, ma vanno assolutamente contestualizzati alle esigenze dell’animale specifico e alle nostre possibilità come persone e come famiglia!

 

Perché il primo step dovrebbe proprio essere, per noi adulti, quello di informarci.
Ricercare, chiedere, documentarci su ciò di cui ha bisogno quell’animale. Se esistono variazioni di razza e specie e quali sono le cose fondamentali da sapere su:

 

Sembra scontato, ma quanto diventano grossi? Cambia a seconda della specie? E quanto a lungo vivono? Possono essere pericolosi per i bambini o per gli altri animali che abbiamo in casa?
Sono tutte domande che spesso non ricordiamo di farci prima, ma sono fondamentali per una scelta il più consapevole possibile.
No, i pesci rossi non rimangono piccoli piccoli, arrivano anche a 20/25 cm di lunghezza e vivono svariati anni se tenuti nelle condizioni giuste.

Cosa mangiano? In che quantità? Anche solo, banalmente, per capire quali sono i costi fissi. Perché no, non sempre quello che pensiamo o si dice in giro è accurato.
Ogni animale ha bisogni diversi e specifici a seconda di numerosissimi fattori (specie, età, patologie, etc.) e informarsi prima è fondamentale per capire l’impegno necessario, anche a livello economico.
No, quello che ci viene detto dai negozianti non necessariamente è corretto e adeguato per l’animale che stiamo adottando.

di quanto spazio hanno bisogno? Servono accorgimenti specifici come gabbie, tane, nascondigli?
Questo perché, di nuovo, le necessità degli animali non coincidono con quello che comunemente si pensa.
No, le tartarughe di acqua non possono vivere in una vaschetta di plastica. E no, i conigli non possono stare tutto il giorno in gabbia.

sono animali che vivono da soli o con altri esemplari? Soffrono la solitudine? Hanno bisogno di interazione umana e in che misura?
No, i cani non possono stare in casa tutto il giorno senza vedere nessuno.

hanno bisogno di cure specifiche? Servono veterinari che siano specializzati per poterli visitare e curare? Se sì, ce ne sono di vicini a noi?
Questa dovrebbero essere le domande essenziali. Perché è vero che ci auguriamo sempre che non serva, ma se gli animali stanno male, il minimo è farli visitare e in alcuni casi potrebbe essere necessario che il veterinario abbia una specializzazione per essere in grado di capire e aiutare l’animale.
No, i pappagalli non possono essere visitati da un veterinario qualunque. E no, le cure veterinarie per animali spesso costano molto di più di quelle per umani, soprattutto quando si tratta di esami specifici come TAC e risonanze, in quanto per loro non esiste il SSN.

Questo tipo di ricerca serve in primis a noi adulti per renderci conto dell’impegno necessario; ma in realtà sarebbe auspicabile farla insieme, soprattutto con i bambini e i ragazzi più grandi, come processo per coinvolgerli fin dall’inizio e conseguentemente per cominciare, sempre a seconda dell’età, a parlare con loro delle responsabilità e delle esigenze dell’animale.

 

Questo sempre nell’ottica che saremo noi i responsabili.
Più i bambini sono piccoli meno capacità di astrazione e pensiero di programmazione nel futuro hanno.
E questo cosa significa?
Significa che far promettere a un ragazzino di 12 anni che porterà fuori lui il cane 3 volte al giorno non è una modalità funzionale. Perché lui prometterà sicuramente e assolutissimamente tutto ciò che serve perché adottiate l’animale e voi rimarrete spiazzati nel momento in cui, passato l’entusiasmo iniziale, cominceranno ad esserci problemi nella divisione dei compiti.
Aggravato dal fatto che non stiamo parlando di un oggetto, ma di un essere vivente, con una sua dignità e che va assolutamente rispettato e curato al meglio delle nostre possibilità.

In questo senso, il coinvolgimento nella parte della ricerca può essere l’occasione per spiegare ai bambini che “noi non ce la sentiamo in questo momento di tenere una tartaruga di acqua e pulire l’acquario ogni 2 settimane”. Oppure che “tra scuola e lavoro siamo a casa molto poco e, purtroppo, i conigli hanno bisogno di spazio e libertà di movimento e gioco”.

“In questo momento non sarebbe la cosa migliore per noi o per loro se li adottassimo.”

L’empatia parte anche da qui.
Anche dal mostrare consapevolezza, attenzione e rispetto verso un animale che ancora non abbiamo adottato.

 

Perché se ci fermiamo a riflettere, insegnare l’empatia in questo contesto non è solo consentire ai bambini di interagire con gli animali e capire che anche loro hanno bisogno di tempi e spazi specifici.
Che non necessariamente vogliono giocare o essere coccolati.
Insegnare l’empatia è anche mostrare noi per primi rispetto verso gli animali. È fare il possibile per dargli una vita in un ambiente e con le cure e attenzioni di cui hanno bisogno. È portarli dal veterinario e pagare le visite e le terapie se stanno male.

Quindi avere consapevolezza dei bisogni dei singoli animali diventa ancora più fondamentale nell’ottica che non possiamo rispondergli “eh vabbè, è solo un pesce. Ne prenderemo un altro.”

 

Perché, è vero che vorremmo che succedesse il più tardi possibile, ma dobbiamo anche mettere in conto che gli animali muoiono. E saremo noi adulti a dover accogliere, accettare, normalizzare e accompagnare i bambini nel processo di lutto di quello che spesso diventa un compagno di vita insostituibile.
E anche questo non è facile.

 

In questo senso, se scopriamo “troppo tardi” che l’animale che abbiamo adottato ha esigenze che non riusciamo a soddisfare, la scelta di esempio empatico potrebbe anche essere più difficile di quello che pensiamo. Potremmo dover cambiare le nostre abitudini o rinunciare a qualcosa per andare incontro alle esigenze dell’animale.
Oppure potremmo trovarci nella posizione orribile di dover decidere se effettivamente sia meglio per loro essere adottati da qualcuno con possibilità maggiori delle nostre (in senso di tempo, spazi o soldi).
Ed essere il più trasparenti possibili su questa scelta, accogliendo e normalizzando tutte le emozioni che possono attraversare noi e i bambini (tristezza, rabbia, sconforto, etc.) è il primo passo per mostrare loro concretamente come gestire situazioni difficili, come sostare nel dolore e come sia possibile riuscire ad essere talmente empatici che si mettono al primo posto le esigenze degli altri.

Per questo è fondamentale informarsi prima.
Perché le alternative esistono. Ci sono animali più o meno impegnativi, anche se sono “meno canonici” rispetto alla definizione standard di “animale domestico”.
Perché ogni famiglia ha le proprie possibilità e ogni animale ha le proprie esigenze e riuscire ad incastrare le due cose significa garantire loro una vita felice e dignitosa e a noi un percorso più sereno.

Selezionare i kit di bruchi per vedere il ciclo di vita delle farfalle, far capire ai bambini che gli animali hanno bisogno di spazio e che non necessariamente vogliono interagire o essere coccolati è, per esempio, ottimo.

Potrebbe essere un’ottima idea e un buon compromesso ritagliarsi un po’ di tempo tutte le settimane per andare in gita da vicini, amici o parenti che hanno animali diversi per consentire ai bambini di interagire in quei contesti o in quegli spazi.
Un buon modo per far passare tutti quei bellissimi messaggi che nascono dalla relazione umano-animale, senza che ci sia l’impegno e la responsabilità dell’avere un animale.

Riflessioni delle stories

LAVORETTI
ESPLOR
GIUDIZI
VESTITI
TAV
LOSSE
ANIMALI DOM
LESSICO VIDE
strum distacco
fatti op giud
gioco autonomo
vaccini
emio
GIOCO AUTONOMO NP
capricci
sakuti

Analisi albi illustrati

La scelta degli albi illustrati per bambini è decisamente ampia e spesso è difficile non solo scegliere, ma anche capire tematiche, illustrazioni, complessità in base alle competenze e all’età dei bambini.

Un pezzettino per volta, vorrei affrontare alcuni albi e spiegare alcuni dei concetti teorici che stanno alla base della storia (e che magari noi adulti diamo per scontati) o alla base della capacità di fruizione dei bambini (che competenze devono avere per capire un determinato testo).

Ho anche scritto alcuni articoli sulla base teorica dietro ai vari aspetti e il primo pezzettino è qui, oppure c’è il video con tutte le informazioni qui.

Bambini e sessualità le premesse

Questo articolo nasce da anni di ricerca e approfondimento sul tema sessualità e infanzia con le sue svariate sfaccettature. La mia necessità iniziale era trovare la linea di demarcazione oggettiva (e non dettata da etica o valori personali) tra ciò che si può dire (e il come lo si può dire) ai bambini in base all’età.

Man mano che approfondivo l’argomento mi sono in realtà resa conto che la risposta alla mia domanda iniziale era abbastanza “banale”: “se un bambino pone una domanda vuol dire che è in grado di gestire la risposta”. Ma si sono aperte una serie di questioni legate all’etica ai tabù e alle modalità e argomentazioni da utilizzare nell’infanzia che mi hanno decisamente affascinato.

Da qui la voglia di scrivere un articolo che fosse il più comprensivo possibile delle varie sfaccettature e possibilità. Ho cercato di renderlo il più approfondito possibile, dividendolo in macroaree per renderlo più fruibile a pezzettini.

La parte teorica di cui spesso ci rendiamo conto è proprio come nella nostra società si sia tramandata questa non competenza nel parlare di un aspetto della vita specifico: la sessualità.

Ed è difficile scardinare questi blocchi, anche se la motivazione che ci sta dietro è ancora una volta il “faccio fatica io adulto per evitare che la fatica la facciano i miei figli”.
Qui il consiglio molto pratico che ho trovato e provato su me stessa è stato quello di allenarmi prima da sola e poi con persone con cui ero molto a mio agio, per poi arrivare ad avere abbastanza confidenza per utilizzare certi termini ed affrontare certi discorsi anche con i bambini (o i genitori).

Tra l’altro questo è uno di quei topic che presenta difficoltà e criticità specifiche a seconda che si sia un genitore o una persona che si relaziona ai bambini per lavoro.
Nel primo caso è molto più probabile che i bambini ci colgano impreparati e facciano domande sporadiche senza preavviso, anche a causa della confidenza e fiducia che hanno nei nostri confronti.
Dall’altro lato, essendo un tema estremamente delicato, da educatori (maestri, insegnanti, etc.) si deve sempre tenere in considerazione anche la modalità con cui potrebbero reagire i genitori.

Credo che la soluzione, come spesso accade, sia una combinazione e un allineamento di approccio da parte di tutti gli adulti di riferimento dei bambini e, dove possibile, un dialogo per spiegare le motivazioni che sottendono alcune scelte specifiche in merito.

Partiamo dalle basi: “che cos’è la sessualità?”
Perché tendenzialmente siamo portati a pensare che sia “solo” legata ad alcune parti del corpo (organi genitali primari e secondari) e ad alcuni atti/istinti legati più o meno direttamente alla riproduzione o al raggiungimento del piacere.

Riporto qui un passaggio della Treccani sul contributo della psicoanalisi nella definizione di sessualità:

“Nell’esperienza e nella teoria psicoanalitiche, la sessualità non designa soltanto le attività e il piacere che dipendono dal funzionamento dell’apparato genitale, ma tutta una serie di eccitazioni e di attività, già presenti nell’infanzia, che procurano un piacere irriducibile al soddisfacimento di un bisogno fisiologico fondamentale (come quelli della respirazione, nutrizione, escrezione ecc.) e che si ritrovano come componenti nella forma cosiddetta normale dell’amore sessuale.”

In questo senso è importante ricordarci due cose:
– da un lato che le zone del corpo interessate non sono solo quelle che canonicamente associamo alla parola “sessualità”. Possono essere coinvolte sostanzialmente anche tutte le altre parti del corpo nel momento in cui vengono stimolate in maniera piacevole.

– dall’altro che è un bisogno fisiologico e che il filtro di associazione sessualità-atto sessuale è qualcosa che ci portiamo dietro noi adulti.

 

In questo senso potremmo affrontare anche l’argomento dei baci sulla bocca tra genitore e figlio.
È un topic che viene dibattuto e argomentato a volte anche in maniera molto decisa.
Vorrei in questo contesto solo sottolineare come la bocca sia una delle zone erogene (che genera stimolazioni sessuali) più sensibili e di come nella nostra cultura ci sia un’associazione netta e molto forte tra baci sulla bocca e relazione romantica.

In questo senso è possibile che questo tipo di interazioni generino confusione nei bambini che hanno accesso a determinati scambi di affetto che sanno più o meno consciamente essere specifici del rapporto di coppia.

Avendo chiare le premesse su tabù e definizione del termine sessualità, possiamo andare ad approfondire il perchè sia importante e da che età parlarne, capire da quali argomenti è bene iniziare, affrontare abusi, sesso e masturbazione, e passare anche ad alcune domande e situazioni molto specifiche e più comuni di quanto si possa pensare.

Oppure a vedere il video di recap con tutte tutte le info, qui.

Bambini e sessualità

Albi illustrati e come sceglierli!

Qui di seguito il video comprensivo sull’argomento albi illustrati, ma volendo si può anche leggere l’articolo (partendo dalle premesse) o guardare una serie di esempi di analisi (registrazione delle dirette fatte nei mesi su instagram) qui.

Albi illustrati e come sceglierli!

Eccoci!

A parlare di LIBRI ILLUSTRATI per l’infanzia.

Uno degli argomenti più complessi, sfaccettati, e senza linee guida pratiche precise e complete né per genitori né per adulti “addetti ai lavori”.
Sì, perché spesso le informazioni che si riescono a reperire sono sulle competenze del bambino nelle varie fasce di età: “nei primi mesi vede solo contrasti di bianco e nero a distanza ravvicinata e poi si aggiungono rosso e azzurro.” oppure “la protostoria può essere seguita propriamente dai 18 mesi circa.”, etc.

Una delle premesse fondamentali è che, soprattutto nell’infanzia, la lettura di un libro è un momento di intimità tra bambino e adulto. Un momento in cui il bambino si sente coccolato e avvolto dalle parole, dal tono di voce, dal ritmo della lettura e spesso dalle braccia dell’adulto stesso, mandando, a volte, in secondo piano il contenuto della storia.

Questo significa che si dovrebbe leggere cose a caso senza pensare?
NO! Però cerchiamo di tenere sempre a mente questo concetto basilare, soprattutto quando alcune delle nozioni e dei criteri di scelta dei libri scardinano completamente o mettono in discussione quelle che sono state le nostre scelte per le letture fino a ieri.

Spesso c’è una differenza sostanziale tra quelle che sono le informazioni reperibili dai genitori e quelle che sono invece le indicazioni che vengono date e sono seguite da educatori e maestre.
Questo per molteplici motivi: in primis la lettura 1 a 1 spesso non è possibile nei contesti educativi e questo per forza incide sulla tipologia di libro  scelto (fosse anche solo per il formato), si presuppone sempre che chi ha che fare con i bambini per lavoro abbia delle competenze professionali specifiche e più tempo per informarsi, verificare e selezionare tutte le proposte che vengono fatte ai singoli bambini e al gruppo.

Siccome, però, questa visione alimenta una sorta di barriera (come se il genitore non potesse essere in grado di avere una performance adeguata per scelta di testi o semplicemente per modalità di lettura, perché non all’altezza dell’educatore per capacità e competenze), vorrei soffermarmi su due aspetti fondamentali.

Il primo è che nessuno nasce imparato. Nemmeno noi educatori.
Quando ho iniziato, durante il tirocinio, a “essere obbligata” a leggere libri ai bambini (perché i bambini ti portano i libri da leggere mentre sono sul servizio. Mica lo sanno che tu sei in ansia e hai paura di sbagliare!) mi sono presto resa conto che la cosa era molto più facile di quello che mi aspettavo. I bambini volevano rivivere e rivedere i libri illustrati che amavano di più e poco importava che io non li leggessi con le stesse tempistiche o intonazione dell’educatrice responsabile o della bibliotecaria da cui andavamo a fare le letture!
Il secondo step è stato, un paio di anni dopo, quando ho preso in gestione un servizio di spazio gioco (in cui gli adulti di riferimento sono SEMPRE presenti durante la mattinata) e ho dovuto (perché, convinta dell’importanza della lettura nella fascia 0-3 anni, avevo deciso di inserire un momento dedicato ai libri nella routine della mattinata) leggere davanti a 8 adulti semi-sconosciuti che, diciamocelo, mi stavano decisamente giudicando.

La conclusione di queste, a tratti angoscianti, esperienze è stata per mia grande sorpresa una miriade di complimenti: genitori che dopo la mia “performance” (decisamente NON ottimale, vista l’ansia che l’aveva accompagnata), mi confidavano titubanti che loro non si sentivano in grado di leggere un libro o di avere le competenze per sceglierne uno adatto e quindi optavano sempre per i “senza parole” o per quelli tattili.
In poche parole mi facevano complimenti per questa mia capacità, che ai loro occhi era vista come magica e inarrivabile. E a nulla servivano le mie rassicurazioni sul fatto che, fino a un paio di anni prima, anche io ero nella loro STESSA IDENTICA SITUAZIONE.

Arriviamo quindi al secondo aspetto fondamentale.

Nessuno ti dice come fare.
Nessuno.
Né ai genitori, né agli educatori.

Il mio percorso di studi (laurea triennale in scienze dell’educazione) mi ha formato su diversi aspetti teorici, ma in nessun punto c’è stato un approfondimento sulla tematica “letture per l’infanzia” se non nell’affermare l’idea di base che “è importante leggere ai bambini fin dai primi mesi di vita”.

Io ho avuto la fortuna di fare un percorso di tirocinio di due anni su un servizio educativo, in cui le educatrici responsabili mi formavano sia sugli aspetti teorici sia sugli aspetti pratici.
E in nessun punto del percorso c’è stata, comunque, una discussione organica sugli aspetti di scelta e lettura dei libri illustrati. Perché per moltissimi anni ci si è basati su:

– scelte fatte precedentemente da altri. Che va benissimo! Però cosa ci fa pensare che gli “altri” abbiano fatto scelte basate su nozioni o informazioni più accurate e organiche delle nostre?

– osservazione delle reazioni dei bambini. Di nuovo, una delle cose fondamentali, ma che presuppone comunque un momento di progettazione e scelta consapevole da parte dell’adulto.

– libri considerati “classici” per una determinata fascia di età. Molto simile al primo punto, ma un po’ più complesso perché motivato dalla miriade di feedback positivi di genitori, educatori ed esperti, senza la minima possibilità di argomentare o chiedere spiegazioni senza essere additati come “coloro che non capiscono”.

Queste consapevolezze, man mano che andavano delineandosi nella mia testa, mi hanno portato a ricercare sempre più informazioni sull’argomento (materiali, libri, corsi, etc.), fino ad arrivare al seminario della prof.ssa Silvia Blezza Picherle e del dott. Luca Ganzerla organizzato da Percorsi Formativi 0-6.

In più punti del percorso mi sono resa conto che, per quanto anche le informazioni presenti nel circolo degli educatori fossero per la maggior parte non organiche e disorganizzate, effettivamente c’era una distinzione tra ciò che veniva considerato come fruibile dai genitori e ciò che invece era meglio non condividere.
Non perché gli educatori siano meglio o più intelligenti, ma perché si ha sempre un po’ la paura che inondare di informazione un genitore lo porti o a non essere in grado di processarle tutte o a sentirsi inadeguato.
Entrambi questi risultati sono, ovviamente, poco auspicabili, ma allo stesso tempo questo tipo di scelta ha impedito che i genitori realmente interessati e, magari, in grado di gestire anche le critiche, non siano in grado di reperire informazioni organiche sull’argomento nemmeno volendo.

Quindi, vorrei cercare di condividere quella che è la briciolina di informazioni e competenze che ho accumulato negli anni, senza filtri e senza censure.
Il mio consiglio è tenere sempre a mente il principio inziale “la lettura di un libro è un momento di intimità tra bambino e adulto.”, magari anche scrivendoselo su un fogliettino e attaccandolo alla libreria, o dove sappiamo che è più probabile che siamo colti da momenti di sconforto e dubbi.
La scelta (o le due, tre, dieci, cento) di un albo sbagliato o una lettura (o le due, tre, dieci, cento) non ottimale non comprometteranno le competenze, la crescita, né l’affetto dei bambini nei nostri confronti, né devono essere viste come una messa in discussione delle nostre competenze di genitore!

Il secondo consiglio è, se come me è facile che troppe novità, critiche o informazioni vi facciano sentire overwhelmed (schiacciati e sopraffatti), prendetevi del tempo per leggere “a pezzettini”.

Ho creato diverse sezioni per cercare di mantenere una struttura organica e consentire una lettura dilazionata. Ma anche perché trovo che nella scelta di un albo illustrato sia più congeniale un’analisi che parta dalle caratteristiche dei libri invece che da quelle delle specifiche fasce di età dei bambini.

Detto questo, “la lettura di un libro è un momento di intimità tra bambino e adulto.”.

Dopo aver affrontato le premesse possiamo addentrarci nei vari aspetti più nel dettaglio: formato e lunghezza, tematica, illustrazioni e testi.

Oppure vedere il video comprensivo completo qui o una serie di esempi di analisi (registrazione delle dirette fatte nei mesi su instagram) qui.

Parchi e dinamiche sociali

Bambini e lutto

Di seguito la versione a video dell’articolo scritto che potete trovare qui.

Bambini e lutto

Di seguito la versione a testo del video che potete trovare qui.

La morte di qualcuno che ci era caro e il processo di lutto che ne consegue, sono un argomento molto complesso e decisamente personale.

Ognuno affronta queste situazioni in maniera unica, in base al suo carattere, alle esperienze che ha avuto e agli strumenti che ha a disposizione.
E a prescindere da tutto, è nella vita uno dei momenti più carichi emotivamente, dolorosi, a volte difficili e con una durata temporale potenzialmente anche molto lunga.
Quindi prima di andare ad esaminare alcuni degli snodi centrali dell’argomento, mi piacerebbe portare l’attenzione su un singolo dato che risalta e ha decisamente la priorità su tutto il resto:

“Quando qualcuno a cui teniamo muore ed entriamo in lutto, è FONDAMENTALE ricordarci che la priorità è prenderci cura di noi.
Darci spazio e tempo. Accettare le emozioni, a prescindere da quali esse siano o da quanto intensamente si manifestano.
E accettare anche quei comportamenti che attiviamo come meccanismi di difesa. A prescindere che siano più o meno accettabili socialmente, più o meno funzionali alla vita di tutti i giorni, più o meno fastidiosi per noi o chi ci sta accanto.
Se dovessimo decidere un singolo frangente in cui possiamo permetterci di fermarci e non giudicarci è proprio questo.”

Non accettando quello che stiamo vivendo, sforzandoci di avere uno o più comportamenti e giudicandoci per questo o per il come stiamo reagendo, rendiamo il processo di lutto ancora più difficoltoso, doloroso e potenzialmente lungo nel tempo.

Detto questo possiamo andare ad analizzare alcune tematiche centrali, quando si parla di morte e lutto nell’ottica educativa con bambini e adulti.

La morte è uno dei più grossi tabù della nostra società.
Un po’ per istinto, un po’ per modalità viste e assimilate dall’esterno, evitiamo di parlarne. Come se non parlarne potesse mascherare in parte quello che è successo o facesse diminuire il dolore.

Da adulti possiamo fermarci e riflettere per capire se e in che frangenti attiviamo questo tipo di meccanismo di difesa. Già averne consapevolezza dovrebbe facilitarci nell’affrontare un pochino per volta il tema.

I bambini, più piccoli sono meno filtri hanno, per cui capita che se assistono direttamente o indirettamente alla morte di qualcuno, comincino a fare domande specifiche.
Lo fanno perché capire qualcosa è un modo molto funzionale per poter gestire le emozioni legate a quella situazione specifica. Se capisco perché e come il nonno è morto, magari non mi passa la tristezza che non c’è più, ma riesco ad evitare di essere terrorizzato che muoiano anche la mamma e il papà, per esempio.

È quindi fondamentale rispondere alle domande dei bambini. Anche quella più banali o assurde.
Con l’obiettivo di spiegare loro il più accuratamente e verosimilmente possibile quello che è successo, sempre nell’ottica della rassicurazione.
A volte sembra davvero più difficile di quello che non è in realtà.
Cerchiamo di partire rassicurando noi stessi: i bambini difficilmente verranno traumatizzati da ciò che gli raccontiamo. Spesso quando insistono con una domanda o su un aspetto specifico è perché vogliono essere sicuri di aver capito.
Pensiamo al fatto che la morte non è esattamente un fenomeno che possono vedere e sperimentare più e più volte finché il cervello non assimila il concetto di base e il tutto risulta chiaro.
Quindi la stragrande maggioranza delle informazioni arriva dalle nostre spiegazioni verbali (e dall’accoglimento e accompagnamento emotivo) e, purtroppo, questo tipo di canale di apprendimento ha bisogno di più tempo e notevoli ripetizioni in più rispetto all’apprendimento pratico.

Spiegazioni

Abbiamo già detto che il dire la verità è fondamentale. Ma quando si tratta di morte, la verità dei singoli piò essere anche molto diversa a seconda di religione, cultura e credenze personali.

Qui cerchiamo di concentrarci su ciò che NOI riteniamo vero. Poi più il bambino sarà grande, più si potrà eventualmente spiegare che esistono anche altri punti di vista diversi, ma il focus principale deve proprio essere sul fatto che io adulto spiego, nella maniera più semplice, lineare e chiara possibile, quello che è successo.

Per questo eufemismi ed espressioni tipiche come “se ne è andato” o “non c’è più” o ancora “è venuto a mancare”, possono generare l’illusione che la morte sia uno stato temporaneo, soprattutto se non sono accompagnate da una spiegazione o una contestualizzazione da parte dell’adulto.

Domande specifiche come per esempio il “ma non si sveglia più?” o il “sembra che stia dormendo”, sono legate al fatto che fino ai 6 anni circa per i bambini è inconcepibile il concetto di “morte” in sé e il fatto che questo stato di “simil sonno” sia permanente.
Per questo è probabile che insistano più e più volte sul “mai”.

Cerchiamo sempre di accogliere queste loro domande in maniera serena e pacata, dando risposte esaustive (anche se fosse sempre la stessa risposta all’infinito).

A volte il rischio è che noi ci spazientiamo o abbiamo difficoltà e soffriamo nel parlare della morte di una persona cara e questo viene solitamente percepito dai bambini, che possono iniziare ad adottare dei comportamenti differenti. Potrebbero, per esempio, smettere di chiedere o sollevare l’argomento, perché pensano che quello che ci fa star male sia il loro fare domande.
E’ quindi importante verbalizzare anche questo pezzettino: “so che quando ne parliamo divento triste. E sono triste perché la nonna è morta, ma tu puoi farmi tutte le domande che vuoi e possiamo parlarne ogni volta che vuoi, perché anche in mezzo alla tristezza, ricordare la nonna mi rende un po’ felice.”

Oppure, nel caso in cui davvero sia troppo da gestire per noi, esplicitiamolo il più serenamente possibile: “capisco che tu voglia parlare dello zio, ma in questo momento sono davvero troppo triste.

Emozioni

Un po’ mi sento a disagio nel contribuire alla separazione fittizia tra emozioni e spiegazioni teorico/verbali, che in realtà sono strettamente legate tra loro. Però per avere una struttura maggiormente scorrevole e più facilmente fruibile ho optato per separarle (anche se si contaminano comunque palesemente a vicenda).

La parte emotiva è fondamentale per diversi aspetti.

In primis è complessissima: ci sono le NOSTRE emozioni di adulto, le emozioni dei bambini, il come esprimiamo entrambe e la nostra capacità di gestirle.

Andiamo con ordine:

  • Le NOSTRE emozioni di adulti sono giustificate. Sempre a prescindere da quali siano o dall’intensità che assumono. Non esiste un “troppo triste per…” e non credete a nessuno che vi dice il contrario.
    VOI state vivendo quell’emozione e solo VOI potete sapere quanto è intensa, a prescindere dal se il resto del mondo la ritiene adeguata alle circostanze.

Accettiamoci e accettiamo le emozioni che ci attraversano in un momento già estremamente difficile, senza che decidiamo di aggiungerci metri di misura esterni e arbitrari.

Allo stesso modo, anche non sentire nulla potrebbe benissimo essere un meccanismo di difesa ed è meritevole di non giudizio e accettazione ugualmente.

  • Le emozioni dei bambini sono giustificate. Sempre a prescindere da quali siano o dall’intensità che assumono. Uguale come sopra? Sì, ma ho pensato di ripeterlo, che non si sa mai che la prima volta non fosse stato abbastanza convincente.

Le emozioni dei bambini in questo contesto hanno un ulteriore ramificazione importante. E cioè il fatto che devono essere contenute, accolte e sostenute da adulti in grado di dare un nome e aiutarli nel capire come gestire quello che sentono.

Anche se la malinconia è tale da impedirgli di giocare. Anche se sono sopraffatti dalla rabbia nei confronti di chi è morto.

Accogliamo quello che sentono, perché non possiamo essere noi a determinare quale o con che intensità sono attraversati da un’emozione specifica. Quello che possiamo fare concretamente è stargli accanto, accettare quello che sentono, farli sentire capiti, normalizzare quello che sta succedendo loro e proporre o trovare insieme delle strategie per gestirlo al meglio.

Quindi? Verbalizzare!

“Capisco che sei furente con la bisnonna perché è morta. Hai ragione ad essere arrabbiato perché vorresti abbracciarla, ma non si può. E’ normale arrabbiarsi quando ci sono cose che desideriamo tantissimo e che ci fanno stare male. Se vuoi possiamo provare ad abbracciare il peluche che ti aveva regalato a Natale e vedere se magari così la rabbia passa un po’”.

E’ facile? No, per nulla. Essere travolti dalle nostre emozioni, ricordarci che dobbiamo accettarle, mantenere dei comportamenti quanto meno funzionali nella vita e nel frattempo accogliere, legittimare e aiutare anche i bambini a gestire le loro emozioni è un’impresa che sembra impossibile.

E lo diventa davvero se ci prefissiamo standard o obiettivi che non sono verosimili.

Se torniamo all’inizio dell’articolo e ricordiamo lo snodo centrale sull’accettazione, ci rendiamo conto che la su cui possiamo mettere degli obiettivi è il non giudizio. Accettiamo che a volte non verbalizzeremo al meglio. Accettiamo che a volte non ci accorgeremo che nostro figlio ha bisogno di parlarne o di supporto. Accettiamo che a volte noi non riusciamo davvero ad affrontare l’argomento in quel preciso momento. Accettiamo che a volte sbottiamo, reagiamo male e magari cerchiamo di modificare le emozioni dei bambini esprimendo giudizi.

Accettiamoci.

E, se proprio vogliamo fare un ulteriore sforzo oltre al sopravvivere al marasma che ci travolge in questi mesi, sforziamoci di verbalizzare. Sforziamoci di buttare giù quelle barriere e quei muri difensivi che abbiamo costruito negli anni e che sembrano insormontabili, perché tra le altre cose nascondono una valanga di dolore.

Perché parlarne fa bene a noi in primis, ma fa bene anche ai bambini che crescendo possono assimilare questa modalità di attraversamento del lutto in maniera naturale e senza trovarsi poi a doversi sforzare da adulti per cambiare meccanismi già assodati negli anni.

Il funerale è un rito che è parte della nostra cultura e che racchiude l’idea del “soffrire insieme” per poter condividere il dolore e aiutarsi a vicenda a superarlo.

È un momento intenso e molto carico a livello emotivo, sia per gli adulti, sia a maggior ragione per i bambini.
Alla domanda “ma è il caso che lo porti al funerale?” rispondiamo subito dicendo che non c’è una risposta unica: “sempre sì” o “sempre no”.

Ci sono diversi fattori da considerare e emozioni che entrano in gioco in maniera ancora più prepotente in questo caso.

Il funerale è un momento in cui si ha la possibilità di dare l’ultimo saluto alla persona che è morta.
Questo spesso aiuta gli adulti nel processo di lutto e, per lo stesso principio potrebbe aiutare anche i bambini.

Allo stesso tempo, però potremmo anche essere nella situazione in cui ci troveremmo decisamente a disagio se il bambino non fosse in grado di stare fermo e zitto durante la cerimonia. Cosa tra l’altro, a seconda dell’età, anche abbastanza comprensibile, vista la quantità di persone che esprimono emozioni in maniera più o meno esplicita in un contesto che non fa esattamente parte della vita quotidiana.

E la motivazione “non me la sento” è comunque un fattore da considerare.
Senza giudizio, senza sensi di colpa.

Oltre alla citatissima verbalizzazione, possiamo utilizzare due tipologie di supporti.

– Oggetti transizionali.
Il peluche regalato dalla nonna, una foto da tenere in tasca o un braccialetto. Qualcosa di concreto che possa essere stretto nei momenti di particolare dolore e malinconia.
I quadrotti famiglia si basano proprio su questo principio ed è un po’ come se il bambino (o l’adulto) potesse stringere concretamente il proprio caro a sé.

– Libri.
Qui serve davvero tanto tanto tatto.
Il libro non è una medicina: ho questo problema, cerco questo titolo.
E’ un supporto da integrare a quanto detto finora, perché se no rischia di diventare invadente e rimarcare ulteriormente l’idea che l’adulto non vuole parlare dell’argomento.
Bisogna cercare di cambiare prospettiva: invece che proporre il libro sperando che il bambino immagazzini il messaggio di fondo (e faciliti il lavoro a noi), proponiamo il libro per consentirgli di avere uno spunto concreto da cui partire per eventuali domande o approfondimenti (e facilitare il lavoro a lui).

Postilla sugli animali domestici a margine, giusto per ribadire che a volte noi adulti perseveriamo nella convinzione che, siccome gli animali domestici non sono persone, non facciano parte della famiglia.

In realtà tutto quello detto sopra è applicabile anche a loro. Proprio perché non può essere qualcuno dall’esterno a determinare quali sono le emozioni o l’intensità adeguata ad una determinata situazione o il grado di affetto all’interno di una relazione.