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Autore: Arry

Come scegliere un servizio educativo

La scelta del servizio educativo a cui iscrivere il proprio figlio è potenzialmente molto impegnativa. Già solo per il fatto che impatterà sulla vita di tutti i componenti della famiglia.

Aggiungiamoci la pressione di sapere che i primi sei anni di vita sono fondamentali per lo sviluppo e la determinazione del sé anche da adulti, e diventa davvero comprensibile come il dover selezionare una o l’altra scuola diventi un problema che può togliere il sonno.

Ovviamente questo articolo non serve a dirvi “è questo il servizio perfetto!”, perché ogni singola famiglia deve trovare non il servizio perfetto in assoluto, ma il servizio perfetto specificatamente per loro.
E, quindi, quello che può fare questo articolo è creare un elenco di alcuni punti che si potrebbero considerare quando si cominciano a leggere i pof e andare ai vari open day.

Aggiungo anche che, avendo un’impostazione da fascia 0-3, alcune delle mie priorità sono molto più marcate rispetto a quello che normalmente viene menzionato nella fascia dell’infanzia.
Gli studi e le ricerche educative e pedagogiche degli ultimi anni hanno dimostrato che un’impostazione empatica e accogliente consente al bambino di sviluppare competenze e abilità in autonomia, anche nella fascia 3-6 (e oltre!).

E partiamo subito con il dire che anche il costo e la vicinanza sono due fattori rilevanti.
Perché comunque impattano sulla vita di tutta la famiglia e dovrebbero essere considerati insieme agli aspetti educativi.
Scegliere il servizio che più si allinea con la nostra linea educativa non necessariamente è la scelta migliore se poi ci costringe a una routine forzata che ci rende costantemente irritati e irritabili.
Cerchiamo quindi di non sottovalutare i fattori organizzativi e pratici, soprattutto visto che l’ideale sarebbe confermare la stessa scelta negli anni successivi per poter mantenere una costanza educativa e a livello di contesto.

Fiducia che dovrebbe accompagnare tutto il percorso, per consentire a noi adulti e ai bambini di vivere questa esperienza in modo sereno.
E a volta la fiducia è “costruibile”, attraverso incontri, domande, discussioni e confronti (auspicabilmente prima dell’iscrizione), a volte è questione di feeling e più ci si sforza di affidarsi, più ci si irrigidisce e nascono dubbi.

Fare uno o più tentativi in questo senso è fondamentale, ma se non ci si riesce ad affidare alle persone che si occuperanno poi fisicamente dei bambini può far nascere problematiche e frustrazioni anche complesse. Sia per noi adulti, sia per i bambini che percepiscono molto bene anche il non detto.

E qui possiamo addentrarci nei “punti educativi”.
L’idea sarebbe quella di trovare un servizio che sia il più in linea possibile con la nostra idea di educazione e di bambino. Cercherò di fare un’analisi di alcuni punti che potenzialmente possono fare emergere una visione piuttosto di un’altra.
E non necessariamente c’è un “meglio” o un “peggio”.

Sono due filoni educativi paralleli.

Il primo si basa sull’idea che i bambini possano apprendere, grazie ai neuroni specchio, alla vicinanza, osservazione e interazione anche con bambini di altre fasce di età e non solo con i loro pari.
Questo consente loro, per esempio, di sviluppare competenze di cura e attenzione verso i più piccoli, e di essere stimolati e avere possibilità di osservare e imitare i più grandi.

Nel secondo caso il focus è quello di creare gruppi omogenei per fasce di età per consentire ai bambini di interagire in un gruppo di pari. In modo che ognuno porti le sue competenze e capacità confrontandosi con gli altri durante proposte mirate specificatamente per le loro abilità.

Non necessariamente un modello è migliore dell’altro.

La scelta potrebbe variare non solo in base allo stile educativo, ma anche in base alla personalità del bambino (se fa fatica a confrontarsi con i più grandi, forse sarebbe meglio consentirgli di passare più tempo in un gruppo omogeneo di pari, per dargli spazio di acquisire competenze a autostima, prima di un confronto con altre fasce di età).

Ogni fascia di età e servizio ha normative specifiche che determinano il numero di bambini massimo per ogni adulto. Sta poi al servizio decidere quante persone saranno effettivamente presenti per ogni gruppo di bambini (in base chiaramente anche a fattori di gestione ed economici).

Normalmente più i bambini sono piccoli più i numeri sono bassi (si può essere intorno ai 4 bambini per i lattanti -4/12mesi-, intorno ai 10 per la fascia asilo nido, fino ad arrivare anche a 28 per la scuola dell’infanzia).
E più i gruppi sono ristretti, più le persone presenti hanno possibilità di fare osservazioni mirate e lavorare specificatamente sui singoli bambini, senza togliere attenzioni o possibilità all’intero gruppo.

In questo senso si trovano servizi specifici dove il rapporto viene mantenuto più basso grazie alle compresenze di più adulti sullo stesso gruppo. Oppure grazie alla presenza di persone specifiche per i laboratori (e quindi il gruppo viene diviso in più momenti della giornata per attività specifiche).

E ancora, in alcune scuole il rapporto numerico viene utilizzato per favorire una responsabilizzazione dei bambini nel prendersi cure gli uni degli altri e nel cercare di risolvere autonomamente i conflitti che si generano.

Gli spazi in cui i bambini passeranno la maggior parte del loro tempo sono un altro fattore rilevante. In generale per gli spazi interni è preferibile un contesto con colori tenui e non troppi stimoli visivi che rendono più difficile la concentrazione.

Esistono servizi che prediligono la cura degli spazi interni (classi, saloni, spazi per i laboratori), servizi che si svolgono prevalentemente all’esterno e servici che hanno deciso di dedicare tempo a entrambi i tipi di setting.

Verificare la cura che viene dedicata al pensare gli spazi che i bambini abiteranno è fondamentale, soprattutto vista la quantità di ore che dovranno passare all’interno di quegli ambienti. E’ un potenziale indicatore di quella che sarà la cura che dedicheranno ai bambini stessi.

Anche qui diventa rilevante il rapporto del bambino con le due impostazioni: le forzature (“non vuole mai stare fuori, quindi lo iscriviamo a un servizio completamente outdoor”) raramente sono funzionali e vengono assimilate senza traumi.

Capire che tipo di proposte, che tipo di laboratori e che tipo di interazioni sono concepite può aiutarci molto nel capire che tipo di approccio viene utilizzato.

Alcuni fattori meno “evidenti” potrebbero essere il se i materiali presenti vengono variati e in base a cosa vengono proposti (osservazione dei bambini o progettazione a calendario).
O anche la modalità di approccio a un bambino potenzialmente non interessato a quell’attività specifica (si cerca di forzarlo a interagire o si lascia che esplori e sia lui stesso a decidere se avvicinarsi o meno).

Oppure il fatto che i laboratori siano scanditi a orari fissi e calendarizzati o vengano proposti in base ai ritmi del singolo gruppo e del singolo bambino e all’osservazione delle interazioni e esplorazioni in corso in un determinato momento della giornata.

Sono due approcci distinti: da un lato si predilige l’idea di seguire i tempi e gli interessi dei bambini per consentire un apprendimento che segua i loro ritmi naturalmente. Dall’altro si punta a renderli consapevoli delle esigenze del gruppo e capaci di gestire tempi decisi e dettati da altri.

Si parla spesso di educazione emotiva nei contesti educativi, ma in concreto in un servizio che cosa significa porre l’attenzione e l’accento sull’accoglienza e legittimazione delle emozioni dei bambini?
Perché sulla carta siamo tutti d’accordo sull’importanza di favorire lo sviluppo di empatia e le competenze di gestione della rabbia o della tristezza.

Riuscire ad accompagnare i bambini nei momenti di frustrazione (come può esserlo un distacco o un confronto accesso con un pari) non è semplice. Ci sono varie metodologie che sono state applicate negli anni e diventa abbastanza complesso capire fino a che punto “avere il bambino e le sue emozioni al centro” sia solo una frase teorica.

Un buon punto di inizio è capire l’approccio che viene usato durante l’inserimento. Quanta rigidità c’è nei tempi e nelle tempistiche (e soprattutto se è dovuta a una progettazione educativa o semplicemente alle richieste e insistenze di alcuni genitori che non tollerano ritardi sulla tabella di marcia). Che tipo di intervento viene fatto quando i bambini hanno comportamenti ritenuti non adatti (mordono, si spingono, piangono, urlano, etc.): li si accompagna verbalmente e fisicamente o si adotta il “buon vecchio metodo” della sedia per pensare.

Quanta tolleranza c’è verso i conflitti tra i bambini e quanto margine viene dato loro (in sicurezza e in base all’età chiaramente) per risolverli in autonomia.

Parlare di “rispetto verso i bambini” è facile, praticarlo concretamente, anche per persone che hanno studiato e che fanno continua formazione, può essere fonte di frustrazione e difficoltà.

Il modo con cui ci approcciamo a questo gap tra ciò che vorremmo ottenere e ciò che concretamente possiamo realizzare differenzia notevolmente la nostra capacità di adattamento ai nuovi approcci e alle nuove scoperte in campo educativo.

E, forse, più che la linea educativa in sé, la capacità di ascolto e di aprire un confronto sereno mettendosi anche a volte in discussione, è quello che fa la differenza nel riuscire ad avere un dialogo e una riflessione sulle necessità del singolo (bambino o adulto che sia).

A questo punto un paio di indicazioni pratiche sul come poter verificare i punti di cui sopra (o quelli che riteniamo importanti) a livello pratico.

Sicuramente i pof o i documenti di presentazione dei servizi possono darci un’idea migliore su quelli che sono i punti che sono stati ritenuti fondamentali. E quindi sulle priorità, almeno sulla carta.
I fattori che determinano cosa viene scritto sono numerosi e includono anche un banale “quello che la maggior parte dei genitori vuole sentirsi dire”.

Diventa quindi molto rilevante avere la possibilità di un confronto diretto con il personale per poter andare oltre la teoria. Fare domande concrete su situazioni specifiche ci aiuta moltissimo a capire le modalità di approccio reali.

Alla domanda “quale è la vostra priorità” è facile recitare il concetto teorico di “bambino al centro, etc. etc.”, ma alla domanda specifica “cosa succede se mio figlio sbatte la testa contro il muro perché non può avere un giocattolo?” diventa più complesso dare una risposta fumosa senza far emergere priorità e linea educativa.

Concludiamo ribadendo che non in tutti i casi è possibile scegliere il servizio educativo perfetto, per svariati motivi, tra cui magari anche la scarsa scelta di servizi nella zona dove abitiamo.

Credo che una delle parti fondamentali della fascia dell’infanzia, all’interno di un percorso, sia che gli adulti di riferimento vivano l’esperienza in modo sereno.
Potersi affidare e avere fiducia nei confronti delle persone a cui si affidano i bambini fa davvero la differenza.

Bambini e lutto

Di seguito la versione a testo del video che potete trovare qui.

La morte di qualcuno che ci era caro e il processo di lutto che ne consegue, sono un argomento molto complesso e decisamente personale.

Ognuno affronta queste situazioni in maniera unica, in base al suo carattere, alle esperienze che ha avuto e agli strumenti che ha a disposizione.
E a prescindere da tutto, è nella vita uno dei momenti più carichi emotivamente, dolorosi, a volte difficili e con una durata temporale potenzialmente anche molto lunga.
Quindi prima di andare ad esaminare alcuni degli snodi centrali dell’argomento, mi piacerebbe portare l’attenzione su un singolo dato che risalta e ha decisamente la priorità su tutto il resto:

“Quando qualcuno a cui teniamo muore ed entriamo in lutto, è FONDAMENTALE ricordarci che la priorità è prenderci cura di noi.
Darci spazio e tempo. Accettare le emozioni, a prescindere da quali esse siano o da quanto intensamente si manifestano.
E accettare anche quei comportamenti che attiviamo come meccanismi di difesa. A prescindere che siano più o meno accettabili socialmente, più o meno funzionali alla vita di tutti i giorni, più o meno fastidiosi per noi o chi ci sta accanto.
Se dovessimo decidere un singolo frangente in cui possiamo permetterci di fermarci e non giudicarci è proprio questo.”

Non accettando quello che stiamo vivendo, sforzandoci di avere uno o più comportamenti e giudicandoci per questo o per il come stiamo reagendo, rendiamo il processo di lutto ancora più difficoltoso, doloroso e potenzialmente lungo nel tempo.

Detto questo possiamo andare ad analizzare alcune tematiche centrali, quando si parla di morte e lutto nell’ottica educativa con bambini e adulti.

La morte è uno dei più grossi tabù della nostra società.
Un po’ per istinto, un po’ per modalità viste e assimilate dall’esterno, evitiamo di parlarne. Come se non parlarne potesse mascherare in parte quello che è successo o facesse diminuire il dolore.

Da adulti possiamo fermarci e riflettere per capire se e in che frangenti attiviamo questo tipo di meccanismo di difesa. Già averne consapevolezza dovrebbe facilitarci nell’affrontare un pochino per volta il tema.

I bambini, più piccoli sono meno filtri hanno, per cui capita che se assistono direttamente o indirettamente alla morte di qualcuno, comincino a fare domande specifiche.
Lo fanno perché capire qualcosa è un modo molto funzionale per poter gestire le emozioni legate a quella situazione specifica. Se capisco perché e come il nonno è morto, magari non mi passa la tristezza che non c’è più, ma riesco ad evitare di essere terrorizzato che muoiano anche la mamma e il papà, per esempio.

È quindi fondamentale rispondere alle domande dei bambini. Anche quella più banali o assurde.
Con l’obiettivo di spiegare loro il più accuratamente e verosimilmente possibile quello che è successo, sempre nell’ottica della rassicurazione.
A volte sembra davvero più difficile di quello che non è in realtà.
Cerchiamo di partire rassicurando noi stessi: i bambini difficilmente verranno traumatizzati da ciò che gli raccontiamo. Spesso quando insistono con una domanda o su un aspetto specifico è perché vogliono essere sicuri di aver capito.
Pensiamo al fatto che la morte non è esattamente un fenomeno che possono vedere e sperimentare più e più volte finché il cervello non assimila il concetto di base e il tutto risulta chiaro.
Quindi la stragrande maggioranza delle informazioni arriva dalle nostre spiegazioni verbali (e dall’accoglimento e accompagnamento emotivo) e, purtroppo, questo tipo di canale di apprendimento ha bisogno di più tempo e notevoli ripetizioni in più rispetto all’apprendimento pratico.

Spiegazioni

Abbiamo già detto che il dire la verità è fondamentale. Ma quando si tratta di morte, la verità dei singoli piò essere anche molto diversa a seconda di religione, cultura e credenze personali.

Qui cerchiamo di concentrarci su ciò che NOI riteniamo vero. Poi più il bambino sarà grande, più si potrà eventualmente spiegare che esistono anche altri punti di vista diversi, ma il focus principale deve proprio essere sul fatto che io adulto spiego, nella maniera più semplice, lineare e chiara possibile, quello che è successo.

Per questo eufemismi ed espressioni tipiche come “se ne è andato” o “non c’è più” o ancora “è venuto a mancare”, possono generare l’illusione che la morte sia uno stato temporaneo, soprattutto se non sono accompagnate da una spiegazione o una contestualizzazione da parte dell’adulto.

Domande specifiche come per esempio il “ma non si sveglia più?” o il “sembra che stia dormendo”, sono legate al fatto che fino ai 6 anni circa per i bambini è inconcepibile il concetto di “morte” in sé e il fatto che questo stato di “simil sonno” sia permanente.
Per questo è probabile che insistano più e più volte sul “mai”.

Cerchiamo sempre di accogliere queste loro domande in maniera serena e pacata, dando risposte esaustive (anche se fosse sempre la stessa risposta all’infinito).

A volte il rischio è che noi ci spazientiamo o abbiamo difficoltà e soffriamo nel parlare della morte di una persona cara e questo viene solitamente percepito dai bambini, che possono iniziare ad adottare dei comportamenti differenti. Potrebbero, per esempio, smettere di chiedere o sollevare l’argomento, perché pensano che quello che ci fa star male sia il loro fare domande.
E’ quindi importante verbalizzare anche questo pezzettino: “so che quando ne parliamo divento triste. E sono triste perché la nonna è morta, ma tu puoi farmi tutte le domande che vuoi e possiamo parlarne ogni volta che vuoi, perché anche in mezzo alla tristezza, ricordare la nonna mi rende un po’ felice.”

Oppure, nel caso in cui davvero sia troppo da gestire per noi, esplicitiamolo il più serenamente possibile: “capisco che tu voglia parlare dello zio, ma in questo momento sono davvero troppo triste.

Emozioni

Un po’ mi sento a disagio nel contribuire alla separazione fittizia tra emozioni e spiegazioni teorico/verbali, che in realtà sono strettamente legate tra loro. Però per avere una struttura maggiormente scorrevole e più facilmente fruibile ho optato per separarle (anche se si contaminano comunque palesemente a vicenda).

La parte emotiva è fondamentale per diversi aspetti.

In primis è complessissima: ci sono le NOSTRE emozioni di adulto, le emozioni dei bambini, il come esprimiamo entrambe e la nostra capacità di gestirle.

Andiamo con ordine:

  • Le NOSTRE emozioni di adulti sono giustificate. Sempre a prescindere da quali siano o dall’intensità che assumono. Non esiste un “troppo triste per…” e non credete a nessuno che vi dice il contrario.
    VOI state vivendo quell’emozione e solo VOI potete sapere quanto è intensa, a prescindere dal se il resto del mondo la ritiene adeguata alle circostanze.

Accettiamoci e accettiamo le emozioni che ci attraversano in un momento già estremamente difficile, senza che decidiamo di aggiungerci metri di misura esterni e arbitrari.

Allo stesso modo, anche non sentire nulla potrebbe benissimo essere un meccanismo di difesa ed è meritevole di non giudizio e accettazione ugualmente.

  • Le emozioni dei bambini sono giustificate. Sempre a prescindere da quali siano o dall’intensità che assumono. Uguale come sopra? Sì, ma ho pensato di ripeterlo, che non si sa mai che la prima volta non fosse stato abbastanza convincente.

Le emozioni dei bambini in questo contesto hanno un ulteriore ramificazione importante. E cioè il fatto che devono essere contenute, accolte e sostenute da adulti in grado di dare un nome e aiutarli nel capire come gestire quello che sentono.

Anche se la malinconia è tale da impedirgli di giocare. Anche se sono sopraffatti dalla rabbia nei confronti di chi è morto.

Accogliamo quello che sentono, perché non possiamo essere noi a determinare quale o con che intensità sono attraversati da un’emozione specifica. Quello che possiamo fare concretamente è stargli accanto, accettare quello che sentono, farli sentire capiti, normalizzare quello che sta succedendo loro e proporre o trovare insieme delle strategie per gestirlo al meglio.

Quindi? Verbalizzare!

“Capisco che sei furente con la bisnonna perché è morta. Hai ragione ad essere arrabbiato perché vorresti abbracciarla, ma non si può. E’ normale arrabbiarsi quando ci sono cose che desideriamo tantissimo e che ci fanno stare male. Se vuoi possiamo provare ad abbracciare il peluche che ti aveva regalato a Natale e vedere se magari così la rabbia passa un po’”.

E’ facile? No, per nulla. Essere travolti dalle nostre emozioni, ricordarci che dobbiamo accettarle, mantenere dei comportamenti quanto meno funzionali nella vita e nel frattempo accogliere, legittimare e aiutare anche i bambini a gestire le loro emozioni è un’impresa che sembra impossibile.

E lo diventa davvero se ci prefissiamo standard o obiettivi che non sono verosimili.

Se torniamo all’inizio dell’articolo e ricordiamo lo snodo centrale sull’accettazione, ci rendiamo conto che la su cui possiamo mettere degli obiettivi è il non giudizio. Accettiamo che a volte non verbalizzeremo al meglio. Accettiamo che a volte non ci accorgeremo che nostro figlio ha bisogno di parlarne o di supporto. Accettiamo che a volte noi non riusciamo davvero ad affrontare l’argomento in quel preciso momento. Accettiamo che a volte sbottiamo, reagiamo male e magari cerchiamo di modificare le emozioni dei bambini esprimendo giudizi.

Accettiamoci.

E, se proprio vogliamo fare un ulteriore sforzo oltre al sopravvivere al marasma che ci travolge in questi mesi, sforziamoci di verbalizzare. Sforziamoci di buttare giù quelle barriere e quei muri difensivi che abbiamo costruito negli anni e che sembrano insormontabili, perché tra le altre cose nascondono una valanga di dolore.

Perché parlarne fa bene a noi in primis, ma fa bene anche ai bambini che crescendo possono assimilare questa modalità di attraversamento del lutto in maniera naturale e senza trovarsi poi a doversi sforzare da adulti per cambiare meccanismi già assodati negli anni.

Il funerale è un rito che è parte della nostra cultura e che racchiude l’idea del “soffrire insieme” per poter condividere il dolore e aiutarsi a vicenda a superarlo.

È un momento intenso e molto carico a livello emotivo, sia per gli adulti, sia a maggior ragione per i bambini.
Alla domanda “ma è il caso che lo porti al funerale?” rispondiamo subito dicendo che non c’è una risposta unica: “sempre sì” o “sempre no”.

Ci sono diversi fattori da considerare e emozioni che entrano in gioco in maniera ancora più prepotente in questo caso.

Il funerale è un momento in cui si ha la possibilità di dare l’ultimo saluto alla persona che è morta.
Questo spesso aiuta gli adulti nel processo di lutto e, per lo stesso principio potrebbe aiutare anche i bambini.

Allo stesso tempo, però potremmo anche essere nella situazione in cui ci troveremmo decisamente a disagio se il bambino non fosse in grado di stare fermo e zitto durante la cerimonia. Cosa tra l’altro, a seconda dell’età, anche abbastanza comprensibile, vista la quantità di persone che esprimono emozioni in maniera più o meno esplicita in un contesto che non fa esattamente parte della vita quotidiana.

E la motivazione “non me la sento” è comunque un fattore da considerare.
Senza giudizio, senza sensi di colpa.

Oltre alla citatissima verbalizzazione, possiamo utilizzare due tipologie di supporti.

– Oggetti transizionali.
Il peluche regalato dalla nonna, una foto da tenere in tasca o un braccialetto. Qualcosa di concreto che possa essere stretto nei momenti di particolare dolore e malinconia.
I quadrotti famiglia si basano proprio su questo principio ed è un po’ come se il bambino (o l’adulto) potesse stringere concretamente il proprio caro a sé.

– Libri.
Qui serve davvero tanto tanto tatto.
Il libro non è una medicina: ho questo problema, cerco questo titolo.
E’ un supporto da integrare a quanto detto finora, perché se no rischia di diventare invadente e rimarcare ulteriormente l’idea che l’adulto non vuole parlare dell’argomento.
Bisogna cercare di cambiare prospettiva: invece che proporre il libro sperando che il bambino immagazzini il messaggio di fondo (e faciliti il lavoro a noi), proponiamo il libro per consentirgli di avere uno spunto concreto da cui partire per eventuali domande o approfondimenti (e facilitare il lavoro a lui).

Postilla sugli animali domestici a margine, giusto per ribadire che a volte noi adulti perseveriamo nella convinzione che, siccome gli animali domestici non sono persone, non facciano parte della famiglia.

In realtà tutto quello detto sopra è applicabile anche a loro. Proprio perché non può essere qualcuno dall’esterno a determinare quali sono le emozioni o l’intensità adeguata ad una determinata situazione o il grado di affetto all’interno di una relazione.

Distacco

Ci avviciniamo alla fine dell’estate e, quindi, all’inizio dell’anno scolastico e che si tratti di scuola dell’infanzia, asilo nido, sezione primavera o servizi alternativi al nido, nella fascia prescolare lo scoglio e la preoccupazione più grossa per genitori di solito è il DISTACCO.

Il momento dei saluti porta con sé preoccupazioni che possono essere più o meno accentuate a seconda di vari fattori: carattere degli adulti coinvolti, aspettative, reazioni che i bambini hanno avuto in precedenza nei momenti di separazione dai genitori, articoli e racconti letti in giro e varie ed eventuali non necessariamente connesse direttamente con questa tematica.

Le modalità che i diversi servizi utilizzano e propongono alle famiglie varia e nel corso degli anni si stanno diversificando, anche se tendenzialmente nella fascia 0-3 l’attenzione è maggiore e i tempi dedicati all’ambientamento sono decisamente più rilassati e dilatati rispetto a quelli che vengono proposti nei servizi della fascia 3-6.

Sia che l’ambientamento duri 2 settimane e mezzo, 3 giorni interi con il metodo svedese o 2 giorni graduali senza presenza dell’adulto in sezione, è innegabile che il primo periodo all’interno di un servizio educativo è sinonimo e fonte di ansie e timori sia per gli adulti, sia per i bambini.

Ci sono diversi aspetti che possono essere trattati e approfonditi quando si parla di ambientamento e distacco, ma in questo frangente vorrei dare un paio di linee guida, senza entrare nel merito dei pro e i contro di ciascuna metodologia e delle singole strutture.
Anche perché non sempre la modalità di ambientamento della struttura è un parametro così rilevante nella scelta del servizio.

Avere fiducia nell’istituzione, ma più concretamente nell’insegnante, nell’educatore e nel personale educativo a cui ci si sta affidando è fondamentale!
Non solo per una questione “logica” del: si dovrebbe affidare il proprio figlio solo a persone che si reputano competenti e capaci, ma per una questione che il bambino SENTE la presenza o la mancanza di fiducia nella relazione tra gli adulti.

Ed essendo che mamma, papà, nonna e perfino babysitter sono figure di attaccamento che vengono letteralmente “prima” dell’educatore, insegnante, etc, il bambino si baserà su ciò che percepisce dell’adulto che conosce, per giudicare (come prima impressione) il nuovo adulto che ha davanti.
Quindi concretamente: se ci sono riunioni prima dell’inizio dell’anno scolastico è fortemente consigliato andarci, anche solo per prendere familiarità con le persone che gestiscono e frequentano la struttura.

Meglio ancora se è possibile fare un colloquio singolo con il personale educativo che avrà direttamente a che fare con il proprio figlio, per potersi togliere dubbi, per fare domande e per cominciare ad entrare in un clima di familiarità.

CONTINUITA’!

Questo è uno dei punti che viene rimarcato più spesso e che a volte passa solo come argomento pratico e funzionale per il genitore: è preferibile che durante il periodo dell’ambientamento il bambino venga accompagnato sempre dallo stesso adulto.
Questo per fare in modo che ci sia una routine il più stabile possibile: è sempre la mamma che lo accompagna e poi torna.

Ma anche perché, unendolo al concetto del “punto uno”, l’adulto che rimane per più tempo sul servizio e/o ha a che fare maggiormente con la struttura e il personale (anche nelle riunioni), sarà quello che trasmette più fiducia ed è meno nervoso e più sereno nel lasciare il bambino ed andare al lavoro.

  • A tal proposito, una conseguenza è preferibile che a fare il distacco sia una persona che sia in grado di gestire le proprie emozioni e, di conseguenza, di regolare quelle del bambino.
    Significa che la mamma o il papà non devono essere tristi o in ansia?
    No!
    Significa che è importante che l’adulto verbalizzi molto (“anche io sono triste che devo andare al lavoro, a prendere il pane, etc! Mi piacerebbe molto stare qui con te a giocare!”), ma anche che sia in grado di bilanciare il lasciare spazio al bambino per dimostrare la sua frustrazione (per esempio: piangendo, chiedendo abbracci e/o rassicurazione fisica) con l’essere fermo nel momento in cui il distacco è necessario.
  • Diretta conseguenza della verbalizzazione, ma assolutamente fondamentale, tanto da meritare un punto a sé: “…MA POI TORNO!”
    L’adulto deve sempre esplicitare l’ovvio!
    Dire al bambino che si va a “fare la spesa”, “al lavoro” (a fare un’azione definita e, meglio ancora, se familiare per la routine del bambino e che lui sa non essere troppo duratura) è importante, ma rassicurarlo dicendogli che “POI SI TORNA” è fondamentale!
    Questa accortezza non significa che il bambino non sarà triste, non esprimerà frustrazione o non si metterà a piangere. Semplicemente lo aiuta a capire il funzionamento di questo processo (magari nuovo) su cui sente di non avere alcun controllo.
    Nel momento in cui la ripetizione del distacco con annesso “vado a… e poi torno!” viene interiorizzata, il bambino sarà in grado di rassicurarsi ed essere certo che l’adulto tornerà a prenderlo e non lo abbandonerà!

Banale? Ovvio che non possiamo lasciare i bambini all’asilo per poi dimenticarceli lì?
Sì, per noi adulti che abbiamo una comprensione del mondo e dei servizi molto più avanzata di quella di un bimbo di 1, 2, 4 anni.
Basti pensare che un altro metodo per fargli interiorizzare il ritorno dell’adulto e fargli sperimentare il distacco è il classico “bubu… settete!” in cui l’adulto interrompe il contatto visivo (e quindi la relazione) per alcuni secondi, mettendo le mani davanti alla faccia, per poi (al “… settete!”) ripristinare la relazione e il contatto con il bambino.

Punti bonus: azione concreta che ha delle conseguenze visibili.
“Andare a bere un caffè” è ottima perché è un’azione breve, ma “andare a prendere la focaccia alle olive che ti piace molto” oltre a non occupare comunque molto tempo (come invece “andare al lavoro” per esempio), dà la possibilità al bambino al ricongiungimento di avere un dato oggettivo che testimoni che l’adulto ha fatto proprio quello che gli aveva detto.

Un ultimo appunto, che è di fatto implicito nei punti precedenti: lo sparire senza dire nulla “perché tanto il bambino è impegnato” o “ma se no poi piange” o “è troppo piccolo per capire” è assolutamente deleterio!
In questo caso i bambini sperimentano davvero l’abbandono e la confusione del girarsi e non trovare più l’adulto di riferimento, senza che nessuno gli abbia spiegato cosa sta succedendo!
Modalità di questo tipo incrinano la fiducia del bambino nei confronti degli adulti e minano la sua sicurezza nell’esplorare e nell’allontanarsi anche fisicamente dalla figura di riferimento.
Al contrario, l’attaccamento sicuro (che approfondiremo in un prossimo articolo) e quindi la certezza e la fiducia che il bambino ha nel girarsi e trovare il genitore che lo aspetta e supporta (sia verbalmente sia fisicamente), gli consentono di esplorare il mondo utilizzando l’adulto come “base sicura” a cui appoggiarsi nei momenti di frustrazione o difficoltà.

Se il bambino è abituato che l’adulto preannuncia l’allontanamento, dopo un po’ interiorizzerà che quando l’adulto non dice nulla, lui non si deve preoccupare perché non c’è il rischio che l’adulto se ne vada mentre lui non guarda.

 

Come facilitarli ulteriormente?

I bambini (ma in realtà anche gli adulti) sono facilitati nell’affrontare le situazioni se già sanno cosa aspettarsi e se hanno già delle strategie o strumenti adatti ad affrontare la frustrazione o la tristezza.

Risulta quindi molto utile fornire al bambino un oggetto transizionale che lo aiuti nei momenti di emozioni intense. Può essere un peluche che già usa quotidianamente per andare a dormire per esempio e che può essere lasciato nell’armadietto all’ingresso e preso all’occorrenza. Oppure qualcosa proprio della mamma, come un braccialetto o un fazzoletto/foglietto con lo stampo di rossetto, come se fosse un “bacio portatile”.

MA ATTENZIONE! Non anticipiamo troppo la verbalizzazione e lo spiegare la situazione che dovranno affrontare, perché potrebbe risultare troppo difficile da gestire per loro.
Le accortezze da ricordarsi sono innanzitutto che i bambini iniziano a sviluppare un concetto di tempo come susseguirsi di momenti (mattina, pranzo, pomeriggio, cena, sera, notte) e giorni (lunedì, martedì, etc) verso i 5/6 anni.
Questo significa che concretamente dirgli “a settembre inizierai ad andare alla scuola dell’infanzia…” potrebbe essere un’enorme fonte di stress proprio perché “settembre” non è un concetto temporale chiaro per loro. E’ un po’ come se recepissero un “prima o poi la mamma ti lascia in questo posto sconosciuto. Prima o poi, forse tra poco forse no”.
E quindi, invece che prepararli a cosa succederà, aggiunge un ulteriore elemento di incertezza.

Un altro elemento molto utile da tenere a mente è non avere aspettative sulle reazioni del bambino: se gli ripetiamo che andrà alla scuola dell’infanzia, nel tentativo di avere una reazione di gioia ed eccitazione, partiamo male.

Partiamo male, innanzitutto perché è più probabile che entriamo in frustrazione e ci esasperiamo se il bambino non ha una reazione abbastanza entusiasta. In più, presi dal nostro entusiasmo e aspettative positive, rischiamo di non curare la forma di ciò che stiamo dicendo.

Il messaggio che dovremmo cercare di far passare è che l’inizio di questo percorso è una cosa neutra, naturale.

Man mano che il bambino metabolizza la cosa e ha determinate reazioni, possiamo calibrare meglio quello che diciamo.
Per esempio: se il bambino va in ansia e comincia già ad essere in frustrazione all’idea della separazione con l’adulto, la nostra reazione dovrebbe essere quella di accoglimento dell’emozione e di rassicurazione. Possiamo spostare l’attenzione sul presente (e non sul futuro), dicendo che “la mamma è qui. La mamma adesso sta con te tutto il tempo che vuoi”.

All’opposto se il bambino è super entusiasta all’idea, cerchiamo comunque di accogliere le sue emozioni e accompagnarlo in questa attesa. Ricordandoci anche che può essere che a settembre rischi di andare in frustrazione perchè la realtà non è all’altezza delle aspettative che aveva.

Un’altra accortezza sulle aspettative è l’evitare di basare quello che pensiamo debba succedere sulle esperienze pregresse, sia in positivo sia in negativo.
Il fatto che i distacchi con la babysitter siano stati un disastro negli ultimi mesi, dovrebbe essere uno dei fattori tenuti in considerazione ma non l’unico.
Il fatto che sia già andato per due anni all’asilo nido e durante il distacco sia sempre stato sereno, dovrebbe essere uno dei fattori tenuti in considerazione ma non l’unico.

Perché?

Perché la situazione è diversa: le persone coinvolte sono diverse, gli spazi sono diversi, i rumori e i profumi sono diversi. Le nostre e le sue emozioni potrebbero essere diverse ed è giusto tenere a mente questa unicità di combinazione di cose.

ATTENZIONE: Cosa evitare a tutti i costi?

Ci sono frasi, espressioni e domande che ci vengono naturali per cercare di sedare le ansie e le frustrazioni e che spesso diciamo senza nemmeno pensarci troppo.

Cerchiamo di soffermarci di più su quello che diciamo e come lo stiamo formulando, perché, oltre a non ottenere l’effetto sperato di rassicurazione, rischiamo di acutizzare ulteriormente le paure del bambino.

Il “ma come? vuoi stare con la nonna e non con tutti questi bambini?” o “ma guarda quanti bei giochi bellissimi!”

Perché?

Perché è un nostro tentativo, a volte nemmeno pensato, di sviare l’attenzione del bambino da noi a un qualcosa che, nella nostra mente, dovrebbe renderlo felice.

Il problema è che in quel preciso momento il bambino sente una tensione nella relazione con noi e sta cercando in tutti i modi di evitare l’allontanamento che sente imminente e, non facendolo sentire riconosciuto in quello che sta provando, andiamo ad aumentare ulteriormente la sua tensione.
E’ molto più funzionale fargli capire e sentire che ci siamo accorti che lui è triste. Che “vediamo” la sua emozione e il suo desiderio di stare con noi. E che ha ragione a provare quell’emozione in quel momento e per quel motivo.

Con questa come base, il bambino può iniziare a lasciare un po’ andare quella tensione, perché è come se vedesse che l’adulto se ne è fatto carico e comunque riesce a mantenere la serenità.

E allora forse anche lui può provare a tranquillizzarsi.

Il “quando sarai grande andrai all’asilo” o “perché ormai sei grande, quindi…”

Perché?

Perché il bambino, che vuole evitare di fare quella cosa, cercherà in TUTTI I MODI di dimostrare di non essere grande.

Anche perché “grande” è un termine molto arbitrario e poco comprensibile per un bambino. Per noi adulti si basa palesemente sull’età, ma ricordiamoci che è anche un termine che indica la massa corporea e a volte utilizzato addirittura per l’altezza.

Piuttosto usiamo termini più specifici e più vicini alle competenze e capacità di comprensione del bambino: l’età.

“I bambini fino a 3 anni vanno all’asilo nido. Quando ne hanno 4 vanno alla scuola materna.”
Di nuovo, come se fosse un processo del tutto naturale e normale.
Semplicemente le cose funzionano così.

Il distacco, e il periodo di ambientamento in una nuova struttura, sono accompagnati da frustrazioni e emozioni forti (sia per gli adulti sia per i bambini), è importante ricordarci che è normale, che i bambini (e anche gli adulti) sono molto più resilienti di quanto a volte ci immaginiamo e che questi momenti sono uno step importantissimo per la crescita del sé del bambino, ma anche per la crescita della relazione tra adulti di riferimento e bambino.
E’ importante quindi cercare di essere il più sereni possibile e affidarsi alle figure educative di riferimento, magari esplicitando dubbi, paure, frustrazioni e domande all’inizio del percorso.

Confrontarsi esprimendo le proprie ansie è il primo passo per riuscire a gestirle e superarle in maniera efficacie!

Albi illustrati e come sceglierli!

Eccoci!

A parlare di LIBRI ILLUSTRATI per l’infanzia.

Uno degli argomenti più complessi, sfaccettati, e senza linee guida pratiche precise e complete né per genitori né per adulti “addetti ai lavori”.
Sì, perché spesso le informazioni che si riescono a reperire sono sulle competenze del bambino nelle varie fasce di età: “nei primi mesi vede solo contrasti di bianco e nero a distanza ravvicinata e poi si aggiungono rosso e azzurro.” oppure “la protostoria può essere seguita propriamente dai 18 mesi circa.”, etc.

Una delle premesse fondamentali è che, soprattutto nell’infanzia, la lettura di un libro è un momento di intimità tra bambino e adulto. Un momento in cui il bambino si sente coccolato e avvolto dalle parole, dal tono di voce, dal ritmo della lettura e spesso dalle braccia dell’adulto stesso, mandando, a volte, in secondo piano il contenuto della storia.

Questo significa che si dovrebbe leggere cose a caso senza pensare?
NO! Però cerchiamo di tenere sempre a mente questo concetto basilare, soprattutto quando alcune delle nozioni e dei criteri di scelta dei libri scardinano completamente o mettono in discussione quelle che sono state le nostre scelte per le letture fino a ieri.

Spesso c’è una differenza sostanziale tra quelle che sono le informazioni reperibili dai genitori e quelle che sono invece le indicazioni che vengono date e sono seguite da educatori e maestre.
Questo per molteplici motivi: in primis la lettura 1 a 1 spesso non è possibile nei contesti educativi e questo per forza incide sulla tipologia di libro  scelto (fosse anche solo per il formato), si presuppone sempre che chi ha che fare con i bambini per lavoro abbia delle competenze professionali specifiche e più tempo per informarsi, verificare e selezionare tutte le proposte che vengono fatte ai singoli bambini e al gruppo.

Siccome, però, questa visione alimenta una sorta di barriera (come se il genitore non potesse essere in grado di avere una performance adeguata per scelta di testi o semplicemente per modalità di lettura, perché non all’altezza dell’educatore per capacità e competenze), vorrei soffermarmi su due aspetti fondamentali.

Il primo è che nessuno nasce imparato. Nemmeno noi educatori.
Quando ho iniziato, durante il tirocinio, a “essere obbligata” a leggere libri ai bambini (perché i bambini ti portano i libri da leggere mentre sono sul servizio. Mica lo sanno che tu sei in ansia e hai paura di sbagliare!) mi sono presto resa conto che la cosa era molto più facile di quello che mi aspettavo. I bambini volevano rivivere e rivedere i libri illustrati che amavano di più e poco importava che io non li leggessi con le stesse tempistiche o intonazione dell’educatrice responsabile o della bibliotecaria da cui andavamo a fare le letture!
Il secondo step è stato, un paio di anni dopo, quando ho preso in gestione un servizio di spazio gioco (in cui gli adulti di riferimento sono SEMPRE presenti durante la mattinata) e ho dovuto (perché, convinta dell’importanza della lettura nella fascia 0-3 anni, avevo deciso di inserire un momento dedicato ai libri nella routine della mattinata) leggere davanti a 8 adulti semi-sconosciuti che, diciamocelo, mi stavano decisamente giudicando.

La conclusione di queste, a tratti angoscianti, esperienze è stata per mia grande sorpresa una miriade di complimenti: genitori che dopo la mia “performance” (decisamente NON ottimale, vista l’ansia che l’aveva accompagnata), mi confidavano titubanti che loro non si sentivano in grado di leggere un libro o di avere le competenze per sceglierne uno adatto e quindi optavano sempre per i “senza parole” o per quelli tattili.
In poche parole mi facevano complimenti per questa mia capacità, che ai loro occhi era vista come magica e inarrivabile. E a nulla servivano le mie rassicurazioni sul fatto che, fino a un paio di anni prima, anche io ero nella loro STESSA IDENTICA SITUAZIONE.

Arriviamo quindi al secondo aspetto fondamentale.

Nessuno ti dice come fare.
Nessuno.
Né ai genitori, né agli educatori.

Il mio percorso di studi (laurea triennale in scienze dell’educazione) mi ha formato su diversi aspetti teorici, ma in nessun punto c’è stato un approfondimento sulla tematica “letture per l’infanzia” se non nell’affermare l’idea di base che “è importante leggere ai bambini fin dai primi mesi di vita”.

Io ho avuto la fortuna di fare un percorso di tirocinio di due anni su un servizio educativo, in cui le educatrici responsabili mi formavano sia sugli aspetti teorici sia sugli aspetti pratici.
E in nessun punto del percorso c’è stata, comunque, una discussione organica sugli aspetti di scelta e lettura dei libri illustrati. Perché per moltissimi anni ci si è basati su:

– scelte fatte precedentemente da altri. Che va benissimo! Però cosa ci fa pensare che gli “altri” abbiano fatto scelte basate su nozioni o informazioni più accurate e organiche delle nostre?

– osservazione delle reazioni dei bambini. Di nuovo, una delle cose fondamentali, ma che presuppone comunque un momento di progettazione e scelta consapevole da parte dell’adulto.

– libri considerati “classici” per una determinata fascia di età. Molto simile al primo punto, ma un po’ più complesso perché motivato dalla miriade di feedback positivi di genitori, educatori ed esperti, senza la minima possibilità di argomentare o chiedere spiegazioni senza essere additati come “coloro che non capiscono”.

Queste consapevolezze, man mano che andavano delineandosi nella mia testa, mi hanno portato a ricercare sempre più informazioni sull’argomento (materiali, libri, corsi, etc.), fino ad arrivare al seminario della prof.ssa Silvia Blezza Picherle e del dott. Luca Ganzerla organizzato da Percorsi Formativi 0-6.

In più punti del percorso mi sono resa conto che, per quanto anche le informazioni presenti nel circolo degli educatori fossero per la maggior parte non organiche e disorganizzate, effettivamente c’era una distinzione tra ciò che veniva considerato come fruibile dai genitori e ciò che invece era meglio non condividere.
Non perché gli educatori siano meglio o più intelligenti, ma perché si ha sempre un po’ la paura che inondare di informazione un genitore lo porti o a non essere in grado di processarle tutte o a sentirsi inadeguato.
Entrambi questi risultati sono, ovviamente, poco auspicabili, ma allo stesso tempo questo tipo di scelta ha impedito che i genitori realmente interessati e, magari, in grado di gestire anche le critiche, non siano in grado di reperire informazioni organiche sull’argomento nemmeno volendo.

Quindi, vorrei cercare di condividere quella che è la briciolina di informazioni e competenze che ho accumulato negli anni, senza filtri e senza censure.
Il mio consiglio è tenere sempre a mente il principio inziale “la lettura di un libro è un momento di intimità tra bambino e adulto.”, magari anche scrivendoselo su un fogliettino e attaccandolo alla libreria, o dove sappiamo che è più probabile che siamo colti da momenti di sconforto e dubbi.
La scelta (o le due, tre, dieci, cento) di un albo sbagliato o una lettura (o le due, tre, dieci, cento) non ottimale non comprometteranno le competenze, la crescita, né l’affetto dei bambini nei nostri confronti, né devono essere viste come una messa in discussione delle nostre competenze di genitore!

Il secondo consiglio è, se come me è facile che troppe novità, critiche o informazioni vi facciano sentire overwhelmed (schiacciati e sopraffatti), prendetevi del tempo per leggere “a pezzettini”.

Ho creato diverse sezioni per cercare di mantenere una struttura organica e consentire una lettura dilazionata. Ma anche perché trovo che nella scelta di un albo illustrato sia più congeniale un’analisi che parta dalle caratteristiche dei libri invece che da quelle delle specifiche fasce di età dei bambini.

Detto questo, “la lettura di un libro è un momento di intimità tra bambino e adulto.”.

Dopo aver affrontato le premesse possiamo addentrarci nei vari aspetti più nel dettaglio: formato e lunghezza, tematica, illustrazioni e testi.

Oppure vedere il video comprensivo completo qui o una serie di esempi di analisi (registrazione delle dirette fatte nei mesi su instagram) qui.

Gestione delle emozioni (dei bambini)

La gestione delle emozioni nei bambini è un tema che diventa centrale circa dai 2 anni, quando il bambino inizia a sviluppare un senso di “sé” e a testare i limiti fisici del mondo circostante: in poche parole quello che può fare e quello che non può fare.

Il tema diventa, quindi, complesso quando, oltre ad analizzare l’emozione e la frustrazione dei bambini si cerca di capire cosa può fare l’adulto concretamente per accompagnarli.

Di base noi sappiamo che dobbiamo cercare di mantenere la calma, quindi quando il bambino va ad esplorare diverse modalità di espressione e si rende conto di QUALE è la modalità che ci fa reagire, istintivamente, nel tempo, la assimilerà e diventerà la sua modalità di espressione delle frustrazioni privilegiata.
Perché?
Perché, involontariamente, gli abbiamo dato questo feedback.

Questo è il motivo per cui solitamente sembra che la modalità di espressione delle emozioni e frustrazioni dei bambini sia sempre quella modalità che ci fa particolarmente imbestialire!

Facciamo un passo indietro.

Nell’ambito educativo si parla spesso di “specchio emotivo” e “contenimento emotivo da parte dell’adulto”. E sostanzialmente si fa riferimento al fatto che i bambini hanno bisogno degli altri (solitamente gli adulti) per apprendere come si vive e ci si comporta in determinate situazioni.
Questo perché la capacità imitativa dei bambini, che è già stata riconosciuta a livello pratico da moltissimo tempo, ha le sue origini nella presenza dei neuroni specchio.
Sostanzialmente ci sono dei neuroni che quando osserviamo qualcun altro fare una determinata azione, “si accendono” allo stesso identico modo di come si accenderebbero se noi stessi stessimo facendo quell’azione.

Questa costatazione ci consente di definire una base piuttosto semplice sul “come insegnare ai bambini a gestire le emozioni”: la capacità del bambino di capire, contenere ed esprimere le emozioni che sta vivendo, soprattutto nel lungo periodo, è direttamente proporzionale alla capacità e competenze che hanno gli adulti di riferimento che gli stanno intorno.

E’ sufficiente che noi adulti impariamo a gestire le nostre emozioni per far sì che i bambini apprenderanno naturalmente per osservazione e imitazione da noi!

Questa è la buona e la cattiva notizia insieme!
Perché lavorare sulla gestione delle emozioni da adulti, dopo che durante la crescita e negli anni, sono state assimilate e consolidate specifiche modalità, è molto difficile e complesso.

La buona notizia è che se facciamo questo sforzo noi, eviteremo che loro si trovino in questa stessa situazione da adulti!

Cosa dobbiamo fare concretamente?

Purtroppo, quando si parla di gestione delle emozioni non si intende solo l’espressione esteriore: tono di voce, postura, azioni. E quindi tutte quelle modalità come urlare, lanciare/rompere oggetti, aggredire fisicamente oggetti e persone.
Ma si intende anche l’intensità dell’emozione stessa che magari non viene esteriorizzata.
Questo perché i bambini riescono a percepirla comunque.

Quindi?
La nota positiva è che solitamente lavorando sulle modalità di espressione esteriori si arriva a modificare anche l’intensità dell’emozione stessa.

La modifica dei comportamenti diventa quindi abbastanza intuitiva: i comportamenti da evitare sono abbastanza evidenti e risultano chiari dopo una breve analisi.
La difficoltà sta nel fatto che nel momento in cui la forza dell’emozione super un certo livello è come se la parte razionale del nostro cervello si spegnesse.
Sostanzialmente il sistema limbico e il cervello rettiliano prendono totalmente il controllo e la corteccia smette di avere una parte della gestione delle nostre azioni.
Questo perché millenni di evoluzione hanno fatto sì che ci sviluppassimo per garantire la sopravvivenza della specie e ovviamente nei momenti di pericolo, attacco o fuga la capacità di agire istintivamente e senza mediazione del pensiero razionale (che ci rallenterebbe) è fondamentale.

La domanda diventa quindi: come possiamo fare per mantenere il controllo razionale ed evitare che la corteccia si spenga?

La tecnica che io ho trovato molto utile e che magari può fungere da spunto per capire il meccanismo e trovare ulteriori modalità è il verbalizzare.
Sostanzialmente ogni volta che mi rendo conto che mi sto irritando o sto andando in frustrazione (a prescindere dal motivo) comincio a sforzarmi di mettere a parole quello che sta succedendo e che sto provando.
Questo ha due effetti: il primo è che mi dà la sensazione di avere controllo su quello che sento (se gli do un nome, diventa più facile capirlo e saperlo gestire) e il secondo è che l’energia che sono costretta ad utilizzare per analizzare ed esprimere il tutto viene di fatto tolta all’emozione stessa.

Sono così concentrata a capire perché una determinata situazione mi causa quella reazione emotiva (es: il ricevere pizzicotti da un bambino mi ricorda quando all’asilo venivo messa in castigo perché litigavo con gli altri, nonostante fossero loro ad iniziare) e a trovare le parole per esprimerla, che smetto di essere arrabbiata.

Una volta che ci si abitua alla verbalizzazione si può passare a lavorare sui contenuti di quel che si dice, mirandoli un po’ di più all’aiutare il bambino con ciò che sta vivendo.

Riguardo a questo, negli anni, ho approfondito e applicato il metodo “dillo con la voce” della dott.ssa Simonelli (Psicologa, Clinica Psicoterapeuta e Psicopedagogista).
Sostanzialmente sono cinque passaggi consecutivi che servono ad accompagnare il bambino a capire ciò che sta vivendo e ad affrontarlo in maniera adeguata.

E’ un metodo che non viene naturale da subito (si devono, soprattutto all’inizio, memorizzare i passaggi) e che ha effetti sul medio/lungo periodo, perché il bambino deve avere il tempo di capire e interiorizzare ciò che gli viene detto.

I passaggi sono:

Primo passaggio fondamentale: sto dando un nome alla cosa che il bambino sente!
MA lo sto facendo in modo delicato con un “mi sembri”, evito quindi di dare un’imposizione e gli lascio lo spazio per replicare dicendomi che “no, io mi sento…”

Secondo passaggio: sto dando voce alla motivazione plausibile.
Di nuovo utilizzando la formula del “forse” lascio comunque spazio al bambino per spiegarmi che ho sbagliato interpretazione o per correggere la formulazione della frase se sente che le parole che ho usato non lo rispecchiano completamente.

Terzo passaggio: fondamentale!
Validazione dell’emozione! Può capitare all’inizio di non ricordarsi tutti i punti o saltarne alcuni, sforziamoci tantissimo di ricordarci questo!
Non importa quanto futile sembri la motivazione scatenante, non importa quanto sproporzionata ci sembri la reazione: HAI RAGIONE AD ESSERE… SE…!
Lasciamo fuori il giudizio, anche perché è incentrato su quelle che sono delle percezioni e delle standardizzazioni sociali con cui siamo cresciuti.
Ricordiamoci sempre che non è una nostra prerogativa decidere se un’emozione o la sua intensità può essere accettabile o no! E’ sempre e solo una prerogativa di chi la sta vivendo! (bambino o adulto che sia)

Il bambino, se accogliamo e accettiamo l’emozione che sta vivendo, autonomamente col tempo, imparerà a modulare la reazione in modo adeguato alle circostanze.

Quarto passaggio: spiegazione razionale. Qui subentra la motivazione logica, è una parte necessaria alla rielaborazione successiva del bambino, ma non aspettiamoci che recepisca immediatamente il senso di quello che gli stiamo spiegando.

Sto sostanzialmente rimarcando l’utilizzo del metodo come soluzione adeguata all’espressione e alla gestione dell’emozione che il bambino sta vivendo!
Il quinto e ultimo passaggio è da utilizzare quando il bambino ha riacquisito la calma ed è quindi in grado di recepire un’ulteriore analisi razionale.

Un paio di precisazioni e postille a margine.
Mi sono resa conto che spesso, soprattutto quando i bambini non sono abituati al metodo “dillo con la voce”, è funzionale ripetere il terzo e quarto passaggio in loop dopo una prima fase di esplicazione totale dei primi quattro.
Quindi la costante ripetizione del “HAI RAGIONE ad essere… se…“ con occasionalmente il “purtroppo però…”  in un tono di voce tranquillo, sereno e pacato (che è fondamentale sempre, a prescindere) li aiuta moltissimo su due livelli contemporaneamente. Da un lato inizialmente il tono di voce e la presenza serena dell’adulto gli danno il feedback fisico del “va tutto bene”, dall’altro lato viene supportato anche dalle parole e dalla frase accogliente che rimarca il messaggio del “va bene che tu sia… (arrabbiato, triste, etc), io lo accetto e sono qui…”

Un’ulteriore nota a margine è che il metodo può essere utilizzato fin da subito! Non importa che il bambino sappia parlare, perché saremo noi a prestargli la nostra voce e a dare comunque un nome a quello che sta sentendo.
In questo modo sostanzialmente il bambino, nel momento in cui acquisirà il linguaggio, avrà già una padronanza della comprensione ed espressione dell’emozione decisamente maggiore!

Perchè una sezione articoli?

Eccoci!

Vorrei prendermi un po’ di tempo per spiegare lo scopo e l’idea che stanno dietro all’apertura di questa sezione con articoli su svariati argomenti per l’infanzia più o meno già trattati fino alla nausea da una miriade di genitori, educatori, pedagogisti, psicologi e chi più ne ha più ne metta.

Sì, perché come primissima cosa vorrei dire che non ho scoperto io l’acqua calda.

Gli argomenti di cui scelgo di parlare sono argomenti che accompagnano le fasi di crescita dei primi anni di vita dei bambini e, quindi, sono sicura che avrete già incontrato diversi articoli, materiali, video che li trattano in maniera più o meno approfondita.

E allora perché ho deciso di unire la mia briciolina alla vastissima quantità di informazioni reperibili nell’etere?

Facciamo un passo indietro…

Mi chiamo Veronica e nel luglio 2017 mi sono laureata in scienze dell’educazione (facoltà universitaria triennale, necessaria per poter svolgere la professione di educatore in Italia).
Ma già dall’anno scolastico 2014/2015 ho iniziato il mio percorso, un po’ ufficioso e un po’ ufficiale, di tirocinio presso uno spazio prima infanzia in un paese limitrofo a casa.
Ho avuto la fortuna di essere inserita in un contesto dove la “cura” era la base fondante di tutto quello che era il percorso sia per i bambini sia per gli adulti che “passavano” anche solo per poco nei servizi.
E la fortuna, ancora maggiore, di essere affiancata a due Educatrici (sì, con la “e” maiuscola), che non solo mi hanno mostrato cosa comporti il ruolo di educatore nell’accompagnamento dei bambini, degli adulti e delle famiglie nei diversi momenti della crescita, ma che hanno condiviso con me gli aspetti decisionali, teorici e motivazionali delle pratiche e delle scelte che venivano fatte sul servizio.

Un po’ per competenze specifiche (sono pochi gli educatori che hanno esperienza in servizi di spazio gioco*), un po’ per compatibilità degli orari (sono ancor meno gli educatori che vogliono lavorare meno di 10 ore a settimana nell’educativo) e di inquadramento lavorativo (per non parlare degli educatori che scelgono di lavorare con partita iva e non sotto contratto) e un po’ per culo (ero nel “posto” giusto al momento giusto) a settembre 2017 ho preso in gestione un servizio di compresenza come educatrice responsabile.

Dopo due anni possiamo dire, con un briciolo di immodestia, che il servizio funzionava parecchio bene!
Siamo passati da 3 mattine di apertura con 4 bambini al giorno a 4 mattine di apertura con 8 bambini al giorno. Gli adulti che frequentavano il servizio (nonni, genitori, babysitter) erano davvero soddisfatti e si era creato un ambiente decisamente accogliente e affiatato!

Perché questa nota di self-pride (orgoglio in se stessi) così a caso?

Perché sin dal primo giorno di tirocinio sono stata accompagnata da una sgradevolissima sensazione di non avere le competenze adeguate per svolgere questo lavoro. E la cosa abbastanza preoccupante è che questa sensazione non mi ha mai realmente abbandonato nemmeno dopo aver gestito da sola con successo un servizio complesso come può essere uno spazio gioco.

Nessuno nasce imparato (né gli educatori, né i genitori) e chiaramente c’è sempre margine di miglioramento (approfondire un argomento, scoprire una nuova teoria pedagogica, proporre materiali diversi o in modo diverso).

Ma allo stesso tempo questa tematica di non essere all’altezza era una cosa che trovavo sempre più spesso anche nei genitori che, confrontandosi, mi confidavano di essere terrorizzati di essere genitori “di merda”.
Le motivazioni spaziavano dall’incapacità di gestire gli outburst (scoppi) di capricci dei figli in determinate situazioni alla confessione di preparare sempre piatti semplici per cena perché troppo stanchi per cucinare quello che il bambino avrebbe preferito.
Ma la cosa più preoccupante, non era che questi comportamenti (assolutamente normali!) minassero così tanto il loro ruolo di genitori, ma il fatto che anche chi faceva non uno, non due, ma 60 passi per migliorare se stesso nell’accompagnare i bambini durante la crescita si sentisse comunque inadeguato.

L’illuminazione mi è arrivata quando F. (mamma di F., 2 anni) dopo aver partecipato a un corso a pagamento specifico per educatori (nb: lei non era, né aveva in programma di diventare educatrice o lavorare con i bambini) mi ha raccontato che era uscita dal corso sentendosi completamente demoralizzata e distrutta nel suo essere “mamma”, perché si era resa conto che le modalità di gestione che aveva usato con F. fino a quel punto non erano adeguate.
E lì è stato complesso cercare di rassicurarla, sapendo che aveva “visto dietro la tenda” degli educatori, dove si parla delle dinamiche dei bambini soffermandosi anche su come queste dinamiche siano spesso generate da comportamenti e frustrazioni degli adulti.
Non bastava più la rassicurazione funzionale del “stai tranquilla, va bene così! Nessuno è perfetto”, perché nel momento in cui le modalità di analisi e le chiavi di lettura che usiamo come educatori non le condividiamo nemmeno con i genitori che sarebbero in grado di gestirle, questi stessi genitori non riusciranno più a fidarsi delle nostre argomentazioni, semplicemente perché abbiamo ammesso le meccaniche dopo che (solo perché) ci hanno colto in flagrante mentre le usavamo.

E da qui nasce l’idea.
L’idea di poter creare uno spazio, un contesto dove mettere le mie competenze di analisi come educatrice a disposizione dei genitori. Un posto, per quanto virtuale, in cui la base sia la fiducia nelle competenze dei genitori in quanto adulti.

Capisco che spesso esista una discrepanza tra gli strumenti che un educatore utilizza per analizzare una situazione e l’analisi finale che condivide con il genitore. E che questa sia spesso dovuta all’idea che il genitore, visto che nella stragrande maggioranza dei casi ha un lavoro diverso, non ha il tempo o le energie per approfondire un determinato argomento con una chiave di lettura e conoscenze professionali (che sì, richiedono tempo).
Un’altra motivazione gettonata (che poi, nella mia modesta opinione, se vale per i genitori vale per tutti, educatori inclusi!) è che il genitore difficilmente è in grado di recepire ed accogliere le critiche, anche se costruttive, o notevoli quantità di informazioni sulle modalità di accoglimento, accompagnamento e supporto dei bambini nel percorso di crescita, se queste sono in contrasto con quelle usate fino a quel momento.
Aggiungiamoci che magari non hanno nemmeno il tempo fisico per consentire un’adeguata rielaborazione e arriviamo alla conclusione che condividendo le meccaniche più profonde che stanno dietro ad alcuni meccanismi o scelte educative in modo completo, otterremmo risultati terribili.
Da un lato un totale rigetto di ciò che abbiamo condiviso con la possibile perdita di fiducia in noi e nelle nostre competenze (è decisamente più facile attaccare l’altro che accettare di “essere in torto”) e dall’altro, l’entrata in uno stato di angoscia e auto-flagellazione per gli “errori” commessi.

Ma (e sì, c’è un “ma”) penso e spero che un modo alternativo di condividere e spiegare le nozioni educative esista e sia possibile. Un metodo in cui l’educatore ha competenze che cerca di sviscerare e spiegare anche al genitore, per far sì che l’analisi della situazione sia fatta da entrambi e non venga consegnata come un pacchetto già pronto.

E non perché “chiunque potrebbe fare l’educatore”, perché ci sono aspetti della professione che raramente si condividono con un genitore comunque (le competenze per la gestione di gruppi numerosi di bambini, il come impostare e gestire attività e proposte con magari delle modalità di condivisione dei materiali nel gruppo, l’osservazione specifica e la rielaborazione dal punto di vista educativo del percorso che un bambino fa durante l’anno come competenze e capacità motorie, emotive, psichiche e fisiche da solo e nei contesti di gruppo).

Ma perché il nostro ruolo come educatori è quello di accompagnare non solo i bambini, ma anche i genitori e gli adulti che ruotano intorno a loro. E dopo due anni di spazio gioco, sono fermamente convinta che questo possa essere raggiunto solo attraverso la trasparenza e l’onestà nel fornire ai genitori stessi la possibilità di fare auto-analisi su di sé.
In questo processo il nostro ruolo non viene sminuito, non perde di importanza. Diventa fondamentale nel sostenere il genitore nel percorso di crescita del bambino non più da esperti che osservano, analizzano la situazione e forniscono le risposte già catalogate e strutturate, ma in una relazione di fiducia reciproca in cui entrambe le parti sono in grado di condividere frustrazioni e difficoltà e di cercare una soluzione in un contesto non giudicante.

Solo così il genitore si sente rassicurato davvero con la frase “stai tranquilla, va bene così! Nessuno è perfetto”.
Perché anche noi educatori abbiamo fatiche, frustrazioni e difficoltà che riguardano il nostro personalissimo rapporto con i bambini, gli adulti e il lavoro in sé.
E credo che ammettere che siamo umani, rivisitare errori che abbiamo fatto e condividerli sia il punto di partenza per non essere percepiti come figure di autorità perfette di cui avere soggezione, ma come esseri umani che concretamente possono aiutare i genitori nel complesso percorso di crescita dei loro figli. Non perché siamo i depositari della scienza infusa, ma perché anni di studio, esperienza e corsi di aggiornamento ci rendono degli esperti nel ricevere critiche e ammettere sbagli nelle metodologie educative utilizzate fino al giorno prima.

In tutto questo rimango fortemente convinta che fare il genitore sia il lavoro più difficile del mondo.

Ho studiato, lavorato e approfondito molte tematiche negli anni e credo di aver raggiunto un buon livello di competenze e conoscenze di base che mi fanno sentire abbastanza adeguata nel mio ruolo di educatrice.

Nella fascia 0-3 anni.

Non oso immaginare la pressione di un genitore che vuole sentirsi preparato e deve affrontare questo tipo di pressioni per tutte le fasi di crescita del proprio figlio.
Per questo credo che il miglior uso delle nostre competenze sia proprio il condividere una modalità di analisi che prenda in considerazione non solo le dinamiche e i vissuti del bambino, ma anche quelli degli adulti che lo accompagnano e come queste ultime hanno effetti sui bambini stessi!

Perché ogni volta che ho incontrato un ostacolo, mi sono resa conto o mi hanno fatto presente che stavo sbagliando o anche solo non pensando prima di agire, ho avuto la fortuna di avere accanto educatori competenti che mi hanno aiutato nel fare e gestire un’auto-analisi dei miei comportamenti e di come questi avessero effetti sul contesto educativo e sui bambini stessi.
Vorrei che questo non rimanesse un privilegio di chi sceglie di lavorare con i bambini come professione, vorrei che diventasse la base per tutti i genitori e gli adulti che ne sentono la necessità. Perché insieme possiamo crescere i nostri bambini, ma possiamo crescere anche noi.

Un passo per volta.





* Piccolo excursus per spiegare cosa è uno spazio gioco. 

Per dare un’idea chiara di come funziona mi baso su come ho visto gestire e poi ho gestito io stessa il servizio.
Uno “spazio gioco” è un servizio di compresenza per famiglie con bambini dai 9 mesi ai 3 anni. La caratteristica fondamentale è che è prevista la compresenza, per ogni bambino, di un adulto di riferimento, che rimane per tutta la durata della mattinata.

Normalmente gli spazi gioco sono aperti per 2/3 ore a mattinata e si basano su una routine molto ben definita che prevede:
– un momento di accoglienza dove i bambini man mano che arrivano possono giocare liberamente con i materiali a disposizione
– circle time: canzoncine e filastrocche tutti a cerchio seduti
– momento di lavaggio mani in bagno
– merenda condivisa tutti insieme al tavolo
– proposta ed attività predisposta dall’educatrice
– momento di lettura
– canzoni e saluti

Gli spazi gioco nascono come servizi per quelle famiglie che non hanno necessità di mandare i bambini al nido (hanno i nonni o un genitore a casa per esempio), ma che comunque vogliono cominciare a offrirgli delle opportunità di socializzazione ed esplorazione in contesti curati. La presenza dell’educatrice dà anche la possibilità di confrontarsi su diverse tematiche o chiedere spiegazioni su argomenti specifici, mentre la presenza dell’adulto consente di mantenere contenuti i costi.